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L'omicidio Kennedy? È stato come l'11 settembre

Parla Dan Bongino, agente del Secret Service che ha fatto da scorta a H. Clinton, G.W. Bush e Obama prima di dedicarsi alla scrittura: "Per noi del Secret Service c'è un prima e un dopo l'assassinio di Dallas". Dallas, 50 anni fa

 

Il Secret Service non si occupa di spionaggio. I suoi membri non sono spie, ma pretoriani: sono quelli uomini in giacca e cravatta che scortano Barack Obama, quelli che setacciano gli albeghi prima che il presidente ci metta piede o che preparano i percorsi dell’auto presidenziale con giorni d’anticipo. Percorrono la strada avanti e indietro decine di volte, annotando i rischi, preparando piani d’emergenza.

Dan Bongino l’ha fatto per anni, con una carriera che parte dal basso: da ordinario agente a New York a membro della scorta di Hillary Clinton, quando era first lady. Dal 2006 si è preso cura della sicurezza di George W. Bush e poi di Barack Obama. Poi, nel 2011, ha lasciato tutto per darsi alla politica. In famiglia erano contrari, nel Secret service erano spiazzati. “Se si trattasse di qualcun altro penserei: ‘È impossibile’”, gli aveva detto il superiore, ricorda Bongino nel suo “Life inside the bubble ”, un’autobiografia che viene pubblicata in questi giorni negli Stati Uniti. “È più moderata di quella che avrei potuto scrivere”, ammette lui a Panorama.it.

Ci sono molti segreti che non ha potuto rivelare nel suo libro?
Ci sono sempre cose che non puoi dire, certo. Quando sono uscito dal Secret service sono subito stato contattato da degli editori che volevano che ne scrivessi, ma ho preferito non farlo. Non avrei mai violato i miei doveri.

Perché allora si è messo a scrivere?
Di sicuro non per i soldi. Questo posso assicurarvelo: nessuno diventa ricco scrivendo libri, a meno che non sia Tom Clancy. Provateci e resterete delusi. Io ho iniziato a scrivere un diario, che poi alcuni amici mi hanno chiesto di trasformare in un libro. È vero, avrei potuto approfittare del lavoro che avevo fatto nel Secret service, ma che cosa ne avrei ottenuto? Non vedo perché dovrei mentire: sul piano personale Obama mi piace, con me è sempre stato molto gentile. Abbiamo solo convinzioni politiche molto differenti.

Il suo lavoro è stato segnato dall’assassinio del presidente John Fitzgerald Kennedy, di cui ricorre il 50esimo anniversario?
Assolutamente sì. Per il Secret service è stato un punto di svolta, come l’11 settembre. In tutto quello che facevamo c’era un modo di fare pre Kennedy e uno post Kennedy: nell’addestramento, nella prassi, nella mentalità. L’assassinio di Dallas è stato il primo momento in cui tutti hanno visto a cosa serviva il nostro lavoro. E noi, da quel momento, ci siamo scoperti importanti. 

Lei dice che il presidente degli Stati Uniti vive come se fosse un attore che recita una parte: ogni suo appuntamento è studiato e programmato, ogni suo contatto con il mondo esterno è filtrato. Ma l’assassinio di Kennedy non dimostra quanto questa distanza sia necessaria? 
Si può non perdere il contatto con la gente senza rinunciare alla sicurezza. Non dico che Obama debba passare tra la folla senza protezioni, come sta facendo Papa Francesco. Esporsi così al pericolo è un rischio enorme e spero che il Papa ci ripensi. Ma si può parlare alla gente anche ricevendo dei consiglieri comunali, per esempio. Ci sono molti modi per far vivere il presidente in sicurezza senza per questo chiuderlo in una bolla.

È una bolla che sta crescendo?
Sì, il presidente è sempre più isolato. Ormai, se a livello locale sei eletto per governare, a Washington sei eletto per servire la burocrazia. Non capisci più quello che succede fuori dal palazzo, perciò finisci non rappresentare i cittadini ma l’idea di mondo che ti sei fatto: alla fine, scopri di essere stato eletto per rappresentare te stesso.

Un effetto di questa bolla sono gli ultimi scandali, come quello sulle intercettazioni. Da ex agente del Secret service è preoccupato?
Molto. La mia esperienza me l’assicura: se dai informazioni al governo, il problema non è se ne farà un abuso, ma quando. La burocrazia è così lenta che spesso non si possono aspettare i suoi tempi e la si aggira. Ormai quando un’autorizzazione arriva sulla tua scrivania c’è già qualcuno che, nel frattempo, si è mosso come se ti fosse già arrivata. In questo momento il governo ha in mano le chiavi della tua vita pubblica e di quella privata. Non va bene. È per questa preoccupazione che ho iniziato a fare politica: perché odio questa politica, perché voglio dire a tutti che c’è ancora tempo per cambiare, anche se il tempo a disposizione per farlo sta finendo.

Il video amatoriale di Zapruder del 1963 a Dallas

 

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Marco Pedersini

Giornalista. Si occupa di esteri. Talvolta di musica. 

Journalist. Based in Milan. Reporting on foreign affairs (and music, too). 

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