Pastori sardi: la protesta del latte continua
La rivolta nell'isola si coordina via social e punta alle elezioni regionali del 24 febbraio. A rischio 12 mila allevamenti e migliaia di posti di lavoro
La protesta dei pastori sardi non si ferma. Almeno finché l'industria della trasformazione non riconoscerà il giusto valore al latte. Troppo pochi 55 centesimi al litro per compensare adeguatamente il pascolo e la mungitura di ogni giorno. E così si va avanti, con blocchi improvvisati su strade e migliaia di litri di latte versati a terra in ogni parte dell'isola.
Una battaglia che si allarga anche grazie ai social. Come già accaduto più volte nelle rivolte spontanee, da ultima quella francese dei «gilets jaunes», i video postati dai pastori sono diventati virali in poco tempo. Ora, dai piccoli paesi della Sardegna, ci si convoca via whatsapp alle successive manifestazioni. Una sorta di “flash mob bucolico” che punta dritto al 24 febbraio, data delle elezioni regionali: il movimento dei pastori minaccia di bloccare l'accesso alle urne, se qualcosa non si sbloccherà prima di quel giorno.
Ma come stanno realmente le cose? Ecco la crisi ricostruita in dieci punti.
In Sardegna ci sono quasi 12 mila allevamenti di pecore, pari al 40 per cento del totale allevato in Italia. Si tratta della più alta concentrazione di ovini di tutto il Mediterraneo: 2,6 milioni di capi (per appena un milione e mezzo di abitanti nell'isola) che producono quasi 3 milioni di quintali di latte. Più della metà di questo (ovvero il 60 per cento) è destinato alla produzione del famoso Pecorino romano, ma anche di altri due formaggi «dop» sardi (il Fiore sardo e il Pecorino sardo).
Le proteste dei pastori sono scoppiate giovedì 7 febbraio in seguito all'ennesimo rinvio del tavolo regionale per parlare del prezzo del latte. Ma la vicenda si protraeva da settembre scorso. E replicava una situazione già verificatasi nel 2010 e, di nuovo, tre stagioni fa quando si sfiorò lo stesso livello di esasperazione odierno. Che cosa è successo?
A gennaio 2018, il prezzo del Pecorino romano era salito alle stelle (7-8 euro al chilo) così i trasformatori hanno iniziato a produrne di più. E qui si innesca la prima distorsione. Di fatto, questo ha determinato una sovrapproduzione di formaggio tant'è che, sei mesi dopo, il prezzo era crollato a 5,40 euro al chilo.
La produzione di pecorino vive soprattutto di export: circa la metà delle forme prodotte finiscono negli Stati Uniti, un altro 20 per cento sulle tavole dei paesi europei e solo il restante 30 per cento è venduto nel mercato domestico.
Secondo i dati forniti a panorama.it da Coldiretti, infatti, 33 dei 37 caseifici sardi non hanno rispettato la quota di produzione fissata dal Consorzio del pecorino romano (composto dagli stessi trasformatori): invece di 280 mila quintali di formaggio, ne sono stati prodotti 341.671 ovvero 61.671 quintali in più di quanto il mercato ne possa assorbire. Nel 2015, era andata anche peggio (356.324 quintali di pecorino a fronte della stessa quota di 280 mila).
La sanzione per questo “sforamento”, stando agli allevatori di pecore, è irrisoria: si rischiano solo 16 centesimi per ogni chilo di pecorino prodotto in eccesso. Non c'è, insomma, un efficace deterrente e diventa più facile “scaricare” il costo dell'eventuale invenduto sui pastori, abbassando il prezzo di acquisto della materia prima, cioè il latte.
Gli attuali 55 centesimi al litro non bastano a coprire neppure i costi di produzione: in media, è il 20 per cento in meno del dovuto (la richiesta è di portarlo ad almeno 70 centesimi netti o un euro al litro).
Che fine fanno le forme di formaggio in più? Il pecorino matura in 5-8 mesi ma, una volta stagionato, può durare fino a 1-2 anni. O perfino di più se trasformato, per esempio, in prodotto grattugiato sotto vuoto. Dei 37 caseifici, 21 sono cooperative (talvolta anche di piccole dimensioni) mentre i restanti 16 sono imprese di maggiori dimensioni. Le prime, appena scende il prezzo, tendono a “svendere” il prodotto in eccedenza per evitare crisi di liquidità. Alcune delle imprese più capitalizzate attendono, per l'appunto, che il prezzo si abbassi per rastrellare le forme di pecorino sottocosto.
Da qui, deriva la seconda distorsione. «Il sistema è completamente avvitato su sé stesso: discutiamo di pochi centesimi di prezzo del latte ma, in realtà, serve ben altro» invocano all'unisono Battista Cualbu e Luca Saba, rispettivamente presidente e direttore di Coldiretti in Sardegna. «Chiediamo un passo indietro di tutti per favorire il commissariamento del Consorzio di tutela del pecorino romano da parte del ministero dell'Agricoltura, con una figura di un magistrato antimafia che accerti le eventuali responsabilità in modo da ripristinare regole certe e funzionanti».
Di diverso avviso, il Consorzio del pecorino romano. «Siamo un consorzio volontario di imprese senza scopo di lucro quindi non possiamo partecipare alla fissazione del prezzo, né per il latte né per il formaggio» puntualizza Salvatore Pallitta, presidente del Consorzio «Sta alla libera contrattazione». Il Consorzio non nega criticità ma si difende e ritiene necessario un «patto» fra le parti.