Perché i 5 Stelle sono molto più abili dei leghisti nell'occupare i posti di potere
Una dimostrazione evidente si è avuta nella partita delle nomine, dove Di Maio e compagni sono riusciti ad avere la meglio
Nessuno ci crederà mai, ma nel disegnare la nuova geografia del Potere in Italia, i grillini stanno facendo la parte del leone.
Li descrivono come inesperti, incompetenti, incapaci, eppure sono riusciti nell’impresa, complessa, di legare il baldanzoso alleato leghista in un intreccio di regole, che li ha resi "dominus" nella difficile partita delle nomine.
Quella che - secondo le previsioni dell’economista di punta di Matteo Salvini, Alberto Bagnai - doveva essere il "core business" del governo gialloverde. Sarà un caso, infatti, ma nelle principali trattative di queste settimane, il plenipotenziario leghista, il sottosegretario alla presidenza del consiglio Giancarlo Giorgetti, è rimasto quasi a bocca asciutta. Ad esempio, sulla "madre di tutte le nomine", la Cassa depositi e prestiti, l’amministratore delegato, Fabrizio Palermo, è stato indicato dai grillini, grazie a Stefano Buffagni, eminenza grigia dei 5 Stelle per le poltrone, e solo in un secondo momento, dopo un incontro con Salvini, condiviso dalla Lega.
Anche alle Ferrovie il Carroccio è rimasto a bocca asciutta: l’amministratore delegato, Giovanni Battisti, un tecnico, è stato scelto dai 5 Stelle, all’interno dell’azienda, mentre il presidente, Gianluigi Vittorio Castelli, è un bocconiano che ha rapporti con la Lega molto alla lontana.
Per non parlare di Marcello Foa, candidato da Salvini in persona per la presidenza della Rai, bocciato da Forza Italia, con Di Maio che, invece, di dar manforte all’alleato, ha cominciato a predicare l’esigenza di un nome condiviso per quel ruolo di garanzia.
Insomma, di leghista nel nuovo potere italiano finora non c’è molto. Nomi ipotizzati per posti di prestigio in quota Carroccio, come Massimo Sarmi, Giuseppe Bonomi, Giovanna Bianchi Clerici, sono rimasti a casa. Come è potuto accadere? Semplice, mentre i grillini hanno fatto scouting nell’universo mondo, i leghisti hanno tentato di imporre i loro amministratori di riferimento, reclutati tra i manager che una volta avevano come riferimento Alleanza Nazionale o tra i loro amministratori locali.
Uno schema che si è rivelato, alla prova dei fatti, una palla al piede. Di Maio e compagni, infatti, hanno usato la tattica del muro di gomma, imponendo una procedura di selezione estremamente complessa.
Innazitutto a Palazzo Chigi è stato messo in piedi una sorta di comitato, formato dal premier, dai suoi vice e dagli uomini di fiducia per incontrare i potenziali candidati. Un sorta di casting. "Abbiamo fatto entrare tanta gente nel Palazzo" racconta Buffagni "e, per mantenere il riserbo, abbiamo utilizzato gli ingressi più improbabili".
Poi, altro ostacolo, sono state richieste informazioni alla magistratura sui diversi nomi, riguardo a carichi pendenti o altro: inutile dire che, in quel mondo, i grillini hanno sicuramente maggior seguito rispetto ai leghisti.
In ultimo i candidati sono stati scelti tenendo conto delle politiche che l’attuale maggioranza vuole seguire nelle diverse realtà. "Così, alla fine" conclude Buffagni "nomi come quelli di Bonomi o Bianchi Clerici, si sono incagliati durante questo lungo itinerario".
Appunto, almeno per ora, mentre i pentastellati sono riusciti ad occupare una serie di caselle importanti, il Carroccio non può dire altrettanto.
Nell’operazione, ovviamente, ha pesato anche l’influenza della Casaleggio Associati, che da tempo aveva intrecciato rapporti con una parte dell’establishment italiano, offrendo a Di Maio e soci un serbatoio di nomi sulla carta autonomi, ma che, nei fatti, avevano già stretto un legame, o, comunque, erano stati "annusati" dal mondo grillino.
Così, se si azzarda un bilancio di questi primi mesi del cosiddetto "governo del cambiamento" si scopre che Salvini per avere mano libera nelle politiche dell’immigrazione e della sicurezza, ha dovuto subire molto sull’economia (Decreto dignità), sulle infrastrutture (rischia di saltare la Tav, la Tap e l’accordo sull’Ilva), e financo sul Potere. Perdendo pezzi d’identità del proprio movimento (basta chiedere agli industriali del Nord-est).
Per cui, presto o tardi, il vicepremier leghista dovrà porsi una domanda: ne valeva la pena?
(Questo articolo è stato pubblcato sul numero di Panorama in edicola il 15 agosto 2018)