Perché don Puglisi sarà beato
Vita del parroco ucciso dai boss di Brancaccio che Benedetto XVI vuole proclamare martire della fede
Per la sua ultima omelia scelse per tema il martirio di Cristo. Era il 14 settembre del 1993 e, in una casa d’accoglienza per ragazze madri, sulle colline alle spalle di Palermo, don Pino Puglisi parlò del sudar sangue di Gesù, alla vigilia della morte, «per la paura umana del dolore che lo attendeva». Ventiquattr’ore dopo, fu don Pino a incontrare i suoi carnefici, quattro mafiosi mandati dai fratelli Filippo e Giuseppe Graviano , boss di Brancaccio, che gli andarono alle spalle e lo uccisero con un proiettile alla nuca. Il parroco della chiesetta di San Gaetano li accolse con una frase diventata celebre: «Me lo aspettavo».
Ventinove anni dopo, il papa Benedetto XVI annuncia la beatificazione di don Pino come martire della fede. Una scelta che segna, per la Chiesa, una decisa scelta di campo e sembra riecheggiare il potente anatema scagliato contro Cosa Nostra da Giovanni Paolo II, il 9 maggio del 1993, nella Valle dei Templi di Agrigento, davanti a tutti i vescovi siciliani e a ottantamila fedeli. Ai mafiosi, quel giorno, il papa gridò: «Convertitevi! Un giorno verrà il giudizio di Dio». A Palermo, nella piccola chiesa di Brancaccio, don Puglisi commentò: «Era ora».
Prete coraggio, direttore del Centro diocesano vocazioni, amatissimo professore di religione in uno dei più prestigiosi licei palermitani, assistente spirituale degli universitari della Fuci, don Pino aveva scelto di occuparsi della parrocchia di San Gaetano, nel desolato quartiere di Brancaccio, su richiesta del cardinale Salvatore Pappalardo. Per tre anni, dal 1990 al 1993, lavorò per sottrarre i bambini del quartiere al reclutamento mafioso e per dare a giovani e adulti una vita più dignitosa.
Unico mandamento mafioso di Palermo ad essere coinvolto in tutte le stragi del ’92 e del ’93, Brancaccio era allora sotto il dominio dei fratelli Graviano, che si dicevano religiosissimi, non sedevano mai a tavola senza prima aver fatto il segno della croce e abitavano a centro metri dalla parrocchia di San Gaetano, dove erano stati battezzati. Abituati a comandare su un quartiere impaurito e silenzioso, dove i latitanti passeggiavano liberamente, i Graviano considerarono una sfida l’inaugurazione del “Centro Padre Nostro”, voluto da don Pino e aperto di fronte alla chiesa. E giudicarono una minaccia il fatto che quel Centro fosse frequentato fino a notte da giovani e volontari e che don Pino diventasse “un personaggio”. Minacciato, perfino picchiato, il parroco non si arrese. Quando ai suoi collaboratori venne bruciata la porta di casa, disse in un’omelia: «Chi usa la violenza non è un uomo: è una bestia».
Durezze alle quali gli uomini di Cosa Nostra non erano abituati. I mafiosi ci tengono a ostentare la propria religiosità. A Totò Riina, nel giorno della cattura, vennero trovati i santini nel portafoglio e Bernardo Provenzano, nel casolare in cui venne arrestato, teneva sul tavolo una Bibbia sottolineata e annotata. Non sono esempi isolati. Uno dei maggiori latitanti che circolavano a Brancaccio nell’estate del ’93, Pietro Aglieri, si era fatto costruire in casa una cappella e chiamava a dir messa un sacerdote, don Mario Frittitta. «Io vado dove il Signore mi manda», disse don Mario, quando la storia diventò pubblica. Don Puglisi, evidentemente, andava da un’altra parte.
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Inviata di Panorama, Bianca Stancanelli è autrice di A testa Alta, storia di don Giuseppe Puglisi, un eroe solitario, edito da Einaudi nel 2003 e ora ripubblicato nei Tascabili