È relativamente semplice, sull’onda del clamore, dell’emozione, e dello sdegno, invocare soluzioni militari contro i nazi-islamisti dello Stato islamico. Più bombardamenti su Raqqa, come sta facendo lo Stato Francese, invasione di terra, più controlli di polizia e poteri speciali alle intelligence, più prevenzione, sospensione di Shengen, financo respingimento di tutti i migranti provenienti dai Paesi mediorientali.
Le vittime di Parigi

La ricerca degli scomparsi viaggia sui social network
Le vittime di Parigi

Stephane Albertini gestiva, con Pierre Innocenti, il ristorante Chez Livio. Erano insieme al concerto al Bataclan
Le vittime di Parigi

Precilia Correia, 35 anni, era impiegata in un negozio Fnac. È morta al Bataclan
Le vittime di Parigi

Loudovic Boumbas è l’eroe della Belle Equipe. Si è lanciato sull’attentatore, nel tentativo inutile di fermarlo.
Le vittime di Parigi

Thomas Ayad era un produttore discografico, si trovava al Bataclan per lavoro
Le vittime di Parigi

Ciprian Calciu e Maria Lacramioara, cittadini romeni
Le vittime di Parigi

Roman Didier, giocatore di rugby
Le vittime di Parigi

Djamila Houd lavorava in un atelier di moda
Le vittime di Parigi

Michelle Gil Jaimes, messicana, uccisa al bar La Belle Equipe
Le vittime di Parigi

Noemi Gonzales, cittadina americana, morta a PArigi negli attentati
Le vittime di Parigi

Mohamed Amine Benmbarek, marocchino, morto a PArigi l’11 novemnre 2015
Le vittime di Parigi

Asta Diakite, 30 anni, era la cugina del calciatore Lassana Diarra, morta negli attentati mentre lui giocava con la nazionale francese
Le vittime di Parigi

Kheireddine Sahbi, violinista algerino, studiava musica a Parigi
Le vittime di Parigi

Marie Mosser, era al Bataclan. Lavorava alla Mercury Records, divisione della Universal France; tra gli altri si occupava di The Vamps
Le vittime di Parigi

Fanny Minot, montatrice televisiva, Canal+, era al Bataclan
Le vittime di Parigi

Alcune persone in sillenzio davanti al Carillon cafe a parigi – 14 novembre 2015
Le vittime di Parigi

Guillaume B. Decherf, giornalista di Les Inrockuptibles: era al concerto del Bataclan per lavoro
Le vittime di Parigi

Valentin Ribet, avvocato, morto negli attentati di Parigi il 13 novembre 2015
Le vittime di Parigi

Le sorelle tunisine Halima e Houda Saadi, sul sito della radio Mosaique Fm che ha dato la notizia della loro morte negli attentati di Parigi
Il punto è che qualsiasi soluzione è complessa, maledettamente complessa, bifronte, ambigua. Questa in fondo non è una guerra tradizionale. Sconfiggere un nemico invisibile – che si nasconde, si mimetizza nel cuore delle grandi città europee – significa ammettere che la superiorità tecnologica e militare, di per sé, non è sufficiente. E ancora, come chiedono molti, sospendere Schengen: quali effetti macroeconomici potrebbe produrre nelle traballanti economie europee? Siamo disposti a pagarne il prezzo? Bloccare tutti i flussi migratori: al di là delle difficoltà pratiche di una tale soluzione, il blocco riguarderebbe anche coloro che fuggono, terrorizzati, dalle aree controllate dall’Isis? Non è, questa guerra, anche e soprattutto una guerra tutta interna all’Islam? Domande, molte, e risposte, poche.
GUERRA ASIMMETRICA
Guerra asimmetrica significa che non hai di fronte un esercito tradizionale. Guerra asimmetrica significa, anche, che non sai esattamente dove è il nemico, che questo può colpire ovunque esista un assembramento, un concerto, un evento. Se c’è la volontà suicida di uno, due, dieci attentatori e basisti basta relativamente poco, anche in termini finanziari e organizzativi, per compiere una strage.
Talvolta il nemico è a Raqqa, la capitale dell’Isis dove c’è il quartier generale dell’organizzazione, talvolta è mimetizzato nelle grandi metropoli, talvolta ancora è un cittadino francese, belga, italiano di lontane origine musulmane. Spesso ha subito un processo di radicalizzazione in tempi recenti e perciò non è mai stato attenzionato dalle forze di sicurezza.
Come prevenire un attacco, se anche l’intelligence francese – che è una delle più preparate del mondo – non è riuscita a sventare l’ultimo attentato al cuore di Parigi? Combattere contro un nemico invisibile porta con sé un profondo di insicurezza, al quale la classe dirigente europea potrebbe rispondere,non solo con più poteri all’intelligence, ma anche sospendendo temporaneamente, in nome dell’emergenza, i diritti costituzionali dei cittadini europei di origine musulmana.
E a quel punto sorge un’altra domanda: quanta libertà siamo disposti a barattare in nome di una maggior sicurezza? E ancora: siamo sicuri che un’azione preventiva e repressiva su larga scala nei quartieri ad alto insediamento musulmano, basata soltanto su legittimi sospetti, non produca l’effetto opposto? Che trasformi un normale giovane musulmano in un incendiario, un fanatico, uno psicopatico stragista?
LA DISUNITA’ OCCIDENTALE
Combattere una guerra in Siria e in Iraq – in quell’area che i think tank occidentali definiscono lo Siraq sunnita – significa costruire una vasta coalizione internazionale che abbia unità di intenti e comuni strategie sul terreno.
Al momento queste condizioni non esistono. I russi finanziano e armano i gruppi filo-Assad che combattono l’Isis e gli altri gruppi di opposizione al regime, gli americani finanziano, armano e addestrano i gruppi anti-Assad cosiddetti moderati che combattono la guerra contro l’Isis, l’esercito siriano e i gruppi filo-Assad. Un ginepraio. Un intervento sul terreno in questo contesto – i famosi boots on the ground – rischia di far deflagrare ulteriormente la guerra civile, favorendo indirettamente lo Stato islamico.
La Turchia, che è ufficialmente parte dell’Alleanza atlantica, ha per mesi, per ragioni interne, giocato su più tavoli, impedendo ai peshmerga curdi di raggiungere i loro fratelli oltreconfine in Siria e al contempo, come hanno denunciato i gruppi e i giornalisti di opposizione a Erdogan, favorendo il flusso di foreign fighters islamisti che hanno ingrossato le fila dell’Isis a Raqqa. Una guerra tradizionale in questo contesto, considerata anche la polifonia dell’Europa, la strutturale mancanza di un esercito europeo, la sua indisponibilità culturale a versare sangue in Medioriente, un azzardo, ancorché (forse) necessario. Una scommessa, come lo fu la guerra in Libia, risoltasi in quel disastro che abbiamo sotto gli occhi: una nuova semina per futuri islamisti e psicotici, un Paese fallito.
BLOCCARE I FLUSSI FINANZIARI VERSO ISIS
Sono i Paesi del Golfo come il Qatar, un Paese che ufficialmente fa parte della coalizione anti-Isis, ad avere finanziato nelle prime fasi la nascita dello Stato islamico, che si è rafforzato anche nel 2005, dopo la scellerata decisione di Paul Bremer di licenziare tutti gli ufficiali saddamiti dopo la guerra in Iraq, grazie al contributo volontario di molti uomini del disciolto esercito iracheno. Chiudere i rubinetti finanziari dei Paesi del Golfo è una soluzione apparentemente ragionevole, ma cozza con questioni di difficile soluzione pratica, e alimenta inoltre il pericolo di un nuovo contraccolpo macroeconomico sul prezzo del greggio, con possibili effetti recessivi su tutte le economie mondiali. È un rischio che siamo disposti a pagare?
Ha scritto Fulvio Scaglione su Famiglia Cristiana: «Solo l’altro giorno, il nostro premier Renzi (che come tutti ora parla di attacco all’umanità) era in Arabia Saudita a celebrare gli appalti raccolti presso il regime islamico più integralista, più legato all’Isis e più dedito al sostegno di tutte le forme di estremismo islamico del mondo. E nessuno, degli odierni balbettatori, ha speso una parola per ricordare (a Renzi come a tutti gli altri) che il denaro, a dispetto dei proverbi, qualche volta puzza». Parole che, probabilmente, bombardamenti a parte, rimarranno lettera morta.