Libia e Siraq: così sta vincendo il brand Isis
Pulizia etnica e potenza del marchio: grazie agli errori dell'Occidente, l'Isis sta affermandosi nella battaglia della comunicazione
Con un esercito composto da 20-30 mila uomini, gran parte dei quali stranieri, lo Stato islamico ha solo un modo per mantenere il controllo del vasto territorio che amministra a cavallo tra Siria e Iraq, grande quanto tutta l'Italia, popolato di circa 11 milioni di persone e finito nel mirino delle aviazioni di americani, francesi e Paesi arabi: compiere una sistematica operazione di pulizia etnica nei confronti di tutte le dissidenze e minoranze autoctone in quei territori, come è avvenuto prims contro gli alauiti e gli yazidi e ora contro i cristiani assiri nel nord-est della Siria, visti dall'Isis come la quinta colonna di Assad e degli empi governanti dei Paesi arabi filo-occidentali.
PULIZIA ETNICA
Le chiese cristiane date alle fiamme e il rapimento di90 caldei-assiri sulla riva sud del fiume Khabur, in una porzione di territorio a ridosso di una zona controllata dai peshmerga curdi, si inquadrano in questo contesto: la pulizia etnica, unita a un ferreo controllo di polizia sulla popolazione assoggettata e a un welfare di sussistenza finanziato in gran parte dai proventi delle raffinerie di greggio rivenduto sul mercato nero, è per i seguaci Al Baghdadi la strada maestra per islamizzare il cosiddetto Siraq, l'area a maggioranza sunnita tra Aleppo e Falluja dove l'Isis ha stabilito il suo quartier generale, nella speranza di rimettere in discussione i confini coloniali degli Stati arabi risalenti agli accordi di Sykes-Picot ed esportare così la rivoluzione anche in altri Paesi sunniti attraversati dalla guerra.
Territorio e oleodotti controllati dall'Isis
IL CASO LIBICO
La Libia, però, è un caso diverso ed è un bene che se ne tenga conto. In quella che Gaetano Salvemini definì in parlamento la «scatola di sabbia» per contrastare i progetti coloniali dell'Italia giolittiana, è in corso un fenomeno di esportazione del brand, una sorta di franchising del terrorismo islamista dove alcuni gruppi jihadisti già presenti nella zona di Derna hanno deciso di affiliarsi formalmente all'Isis, da cui sperano di ottenere vantaggi finanziari e armi per avere ragione sulle altre fazioni che si contendono il controllo della Tripolitania. Non una penetrazione vera e propria degli jihadisti di Al Baghdadi in Libia, come sarebbe stato facile pensare leggendo i titoli dei quotidiani, ma al contrario un modello ibrido, dove l'Isis non è tanto un'organizzazione come la primaAl Qaeda bensì un marchio di successo che riesce a conquistare non solo il «cuore e la mente» degli aspiranti jihadisti sparsi per il mondo, ma anche il mercato delle emozioni e dell'identità dei musulmani libici.
BRAND ISIS
Come ha segnalato il pubblicista Arsen Ibrahim «l'Isis è diventato un brand di successo» non solo (purtroppo) per migliaia di musulmani ma anche per i media occidentali che, in quel gioco di specchi deformati che è la propaganda bellica, finiscono per riverberare la potenza (reale e presunta) degli jihadisti ogni qual volta ne vengono diffuse le «imprese» grazie a videoclip tutt'altro che amatoriali. È come se l'Occidente, sempre più confuso e dimentico delle proprie radici, stesse involontariamente consentendo ai seguaci dell'Isis di vincere la battaglia della comunicazione. È un tema, questo, che non appare che marginalmente nelle riflessioni delle cancellerie e dei servizi segreti dei Paesi europei. Eppure, è il tema. Altrimenti, un piccolo esercito di 30 mila uomini - per avere ragione del quale, dal punto di vista militare, basterebbe e avanzerebbe l'esercito di un singolo Paese arabo come la Giordania - rischia di trascinare tutti in un nuovo clash of civilations, dove in realtà finirebbero per combattersi non due civilità bensì le sue più orripilanti caricature.