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Siria, perché la Turchia ha schierato i tank al confine

Posizionare 40 carri a ridosso dell'area in mano all'Isis serve a evitare un intervento dell'Iran. Mettendo a tacere i malumori della comunità curda in patria

All'indomani dei primi bombardamenti della Royal Air Force britannica contro le postazioni degli islamisti nel nord Iraq e a Mosul e dell'offensiva dell'aviazione iraquena a sud di Baghdad, anche la Turchia del presidente Erdogan ha posizionato almeno 40 carri armati a ridosso della frontiera con la Siria, nei pressi della città curda di Kobane, teatro da giorni di un’offensiva in serie dell’Isis che ha costretto migliaia di famiglie a fuggire dalle loro abitazioni. La decisione di Ankara prelude a un voto in parlamento che dovrebbe autorizzare i militari ad allargare il proprio raggio di azione per arginare l'avanzata dei guerriglieri islamisti lungo il confine siriano e iraqueno.

L'inefficacia dei raid
Il vero punto di domanda, mentre i raid statunitensi continuano a colpire le raffinerie degli jihadisti nell'est del Paese, riguarda la capacità del fronte islamico di cambiare rapidamente le basi dove si nascondono e di attingere a fonti di finanziamento diverse da quelle degli impianti di gas e petrolio bombardati dagli americani. «Sapevamo che gli americani conoscevano le nostre basi grazie ai radar. Non siamo stati colti alla sorpresa. Quanto ai bombardamenti contro le nostre raffinerie vi posso dire che non era la nostra unica fonte di denaro» ha detto alla Cnn un miliziano dell'Isis, Abu Talha. «Le basi? Sono state completamente svuotate nascondendo gli equipaggiamenti nei quartieri civili oppure sotto terra. La verità è che i raid sono inefficaci» ha confermato sempre alla Cnn Abu Omar, un miliziano che ha disertato dopo aver toccato con mano le atrocità di cui sono stati capaci i suoi ex compagni.

I motivi della decisione di Ankara
La decisione di Ankara di schierare le truppe lungo il confine siriano, teatro di una micidiale offensiva dell'Isis, ha spento almeno temporaneamente le critiche sollevate dai curdi-turchi contro il governo, accusato nelle prime battute della guerra di non aver aiutato i combattenti  in Siria (assai più deboli dei peshmerga, loro omologhi in Iraq). «Abbiamo aperto le frontiere ai fratelli siriani, ai fratelli iracheni, senza fare differenza tra arabi, kurdi, yazidi, musulmani, cristiani, sciiti o sunniti, e continueremo a farlo» ha dichiarato il premier turco Ahmet Davutoglu per cercare di sedare i malumori e le preoccupazioni dei cittadini curdi in patria, storicamente guardati con diffidenza da Ankara per le loro ambizioni secessioniste. Gli sfollati, lungo il confine tra Siria e Turchia, sarebbero già secondo Ankara oltre 160 mila, una vera e propria bomba umana a orologeria che rischia di destabilizzare anche la Mezza Luna.

Arginare Teheran
La scelta di Ankara ha anche una ragione politico-diplomatica sul grande scacchiere mediorientale: se non intervenissero a sostegno dei curdi lungo il confine siriano, gli Stati Uniti sarebbero costretti a chiedere un maggior coinvolgimento dell'Iran, un'eventualità guardata con crescente timore non solo da Ankara ma anche da Riad. Un'eventualità che anche a Washington è guardata con qualche perplessità. Ankara ha giocato d'anticipo. Un po' per mettere a tacere i malumori della comunità curda in patria, un po' per evitare un intervento dell'Iran nel teatro bellico, anche attraverso i suoi alleati iraqueni e siriani.

I profughi in fuga dall'Isis

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Una bambina Yazidi in un campo del nord dell'Iraq dopo l'offensiva dell'Isis

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