Autonomia differenziata, ecco cosa cambia
È arrivato il via libera definitivo dalla Camera alla riforma che definisce le procedure legislative e amministrative per gestire, risolvere e coordinare le intese tra lo Stato e quelle Regioni a statuto ordinario che ora potranno chiedere al governo di essere autonome in determinati settori
Autonomia differenziata. Una buona legge secondo Fratelli d’Itlaia, un risultato storico secondo la Lega, un atto dovuto secondo Forza Italia. Ecco, in sintesi, ciò che ha rappresentato per i partiti della coalizione governativa il via libera definitivo della Camera dei Deputati al ddl Calderoli che, dopo l’ok del Senato, licenzia il testo con 172 sì, 99 voti contrari e un astenuto.
Undici articoli che definiscono le procedure legislative e amministrative per gestire, risolvere e coordinare le intese tra lo Stato e quelle Regioni a statuto ordinario, che d’ora in avanti potranno chiedere a Roma una certa «autonomia differenziata» ovvero dei «distinguo» nel trattamento di alcune materie specifiche (23 il numero esatto) per come indicate nel provvedimento a firma del leghista ed ex ministro della Semplificazione normativa Roberto Calderoli, oggi al dicastero per gli Affari Regionali e – appunto – le Autonomie.
Il ddl che porta il suo nome è una legge «puramente procedurale per attuare la riforma del Titolo V della Costituzione», per come era stata architettata nel 2001. In 11 articoli, essa definisce le vie procedurali sia legislative sia amministrative da seguire per dare applicazione soprattutto alle intese tra Roma e quelle Regioni che s’interrogano sul conflitto di attribuzione con lo Stato centrale .
Ecco perché il testo specifica come le richieste di autonomia debbano partire «su iniziativa delle stesse Regioni, sentiti gli enti locali». In particolare, si stabilisce che tale impulso possa riguardare «la richiesta di autonomia in una o più materie o ambiti di materie e le relative funzioni. Segue il negoziato tra il governo e la Regione per la definizione di uno schema di intesa preliminare».
Ma esattamente quali sono le materie per le quali una Regione può chiedere di affrancarsi dal decisionismo centralista e dalle lentezze dell’Amministrazione? Ecco le più importanti: Tutela della salute, Ambiente, Energia, Trasporti, Cultura e Commercio estero, Istruzione e Sport. Sempre che si rispettino i cosiddetti «Lep», Livelli essenziali di prestazione.
Già, perché «la concessione di una o più forme di autonomia» si legge nel testo è subordinata alla determinazione dei Lep, cioè dei «criteri che determinano il livello di servizio minimo che deve essere garantito in modo uniforme sull’intero territorio nazionale». Quindi, dei costi e dei fabbisogni standard. Cosa che prevede una (non facile) ricognizione della spesa storica dello Stato in ogni Regione nell’ultimo triennio.
Per ottenere il trasferimento delle funzioni dallo Stato, le singole Regioni dovranno aspettare che Roma dia loro il via libera, una volta che avrà determinato i Lep e dunque la fattibilità/sostenibilità della eventuale concessione (sempre nei limiti delle risorse rese disponibili in legge di bilancio). Dunque, senza adeguato finanziamento e sostenibilità economica non ci potrà essere autonomia. Tutto chiaro? Insomma.
Di certo, infatti, l’Autonomia differenziata non è una «rivoluzione» ma un tentativo di accontentare le pulsioni centrifughe di certe Regioni ordinarie (vedi quelle al nord guidate dalla Lega) in equilibrio con le esigenze di contenimento della spesa dell’Amminsitrazione pubblica.
Ecco perché il ddl Calderoli ha previsto una cabina di regia: sarà composta da tutti i ministri competenti e affiancata da una segreteria tecnica creata presso il Dipartimento per gli affari regionali e le autonomie della Presidenza del Consiglio. A questo Dipartimento spetterà lo studio della fattibilità, del quadro normativo e così anche l’individuazione delle materie o ambiti veramente riferibili ai Lep, in armonia con i pari diritti di tutte le altre Regioni. Più facile a dirsi che a farsi, sembra di capire.
Intanto, il governo entro il 2026 dovrà varare uno o più decreti legislativi per determinare la copertura finanziaria dei Lep. Mentre le trattative tra Stato e Regioni – ormai la Cassazione ci ha chiarito che possiamo usare questo termine, «trattativa» appunto, riferito allo Stato, senza dover temere che si tratti di qualcosa di illegale – dovranno portare a un accordo entro 5 mesi. Stabilite le intese, l’autonomia concordata potrà durare fino a un massimo di 10 anni e poi dovrà/potrà essere ridiscussa ed eventualmente rinnovata. Ma l’autonomia potrà terminare anche prima, con un preavviso minimo di almeno 12 mesi: pare di capire, che il caso contempli quelle situazioni in cui in questo tempo si avvicendino, come probabile, nuovi governi e governatori che hanno idee diverse sulla distribuzione e gestione delle autonomie locali.
C’è infine una clausola di salvaguardia, prevista all’articolo 11 che, oltre a estendere la legge anche alle Regioni a statuto speciale e alle province autonome, afferma che l’esecutivo può sostituirsi agli organi delle Regioni, delle città metropolitane, delle province e dei comuni «quando si riscontri che gli enti interessati si dimostrino inadempienti, rispetto a trattati internazionali, normativa comunitaria oppure vi sia pericolo grave per la sicurezza pubblica e occorra tutelare l'unità giuridica o quella economica». In particolare, si è inteso soprattutto tutelare la garanzia che le Regioni forniscano adeguati livelli essenziali delle prestazioni sui diritti civili e sociali, ma anche relativamente alla salute e all’ambiente.
È, quest’ultima clausola, opera del buon lavoro di Forza Italia che, prima di concedere l’ok definitivo al provvedimento, ha fatto in modo che la Camera approvasse i suoi 4 ordini del giorno che prevedevano: lo stop ai negoziati con le Regioni fino alle definizioni dei Lep; un diverso trattamento per gli atti il cui confronto Stato-Regioni era già stato avviato prima dell’entrata in vigore della legge; l’imprescindibile determinazione a priori circa l’impatto finanziario da accompagnare ai decreti legislativi sulle intese; l’analisi dell’impatto anche di eventuali trasferimenti di materie «non Lep» che rimane al vaglio delle Camere; e «un’applicazione rigorosa» delle facoltà da parte del Consiglio dei ministri di «limitare l’ambito delle materie oggetto di intesa».
Restano alti i rischi che questa riforma non aiuti né semplifichi: intanto, un dubbio è già stato evidenziato dallo stesso Ufficio parlamentare di bilancio, quando afferma che «l’autonomia differenziata potrebbe evolvere verso configurazioni molto diverse fra loro, a seconda della numerosità delle Regioni interessate e dell’ampiezza ed eterogeneità delle funzioni richieste. Non si può quindi escludere uno scenario fortemente frammentato con un significativo numero di Regioni che acquisiscono funzioni differenti, con una diversa composizione relativamente ai LEP e con un diverso peso finanziario».
E poi, c’è il timore che poiché le Regioni chiederanno funzioni senza dubbio differenti le une dalle altre, questo porterà lo Stato centrale in certi casi a trasferire funzioni, in altri a tenere per sé queste stesse, contribuendo non tanto allo smantellamento delle strutture statali a favore delle strutture regionali, ma a una probabile duplicazione di strutture, con una conseguente e inevitabile moltiplicazione dei costi. Cui prodest? Nella speranza che non sia così, il governo si avvia a «cambiarla questa nazione», come la stessa Giorgia Meloni ha precisato, «e tutte le riforme che abbiamo fatto sono riforme economiche». Infatti, il punto è proprio quello. Terranno i conti dello Stato? Forse, per la salute del Paese questo è addirittura più importante che la tanto temuta (da parte delle opposizioni) riforma del premierato.