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Politica

Barbano: «La giustizia italiana? Una gogna…»

Per Alessandro Barbano, giurista di base e analista prospettico della complessa problematica che ruota attorno all’universo-giustizia, la riforma del sistema giudiziario italiano non è più rimandabile

«La giustizia è la prima virtù delle istituzioni sociali, così come la verità lo è dei sistemi di pensiero». Fu oltremodo tranchantJohn Rawls (1921-2002) quando, vergando l’introduzione della sua opera più celebre, «A theory of justice», («Una teoria della giustizia»), non impiegò molto a concludere che la verità e la giustizia fossero le principali virtù delle attività umane. A poco più di cent’anni dalla nascita e a ventidue dalla scomparsa, Rawls è ricordato tra i massimi filosofi politici del ventesimo secolo ed il suo è «considerato, fin dal suo apparire, come il più importante libro di filosofia politica in lingua inglese dopo il Leviatano di Hobbes», come ricorda il filosofo-politico Sebastiano Maffettone, curatore dell’edizione italiana nel 1982. Professore alla Harvard University, dove insegnò tra il 1962 ed il 1991, Rawls elaborò nel 1971 l’idea normativa di una giustizia come equità («as fairness»), cioè di una categoria che si ponesse come criterio fondamentale per l’organizzazione delle istituzioni politiche. Ovvero, se la giustizia è realmente un’esigenza morale non condizionabile, essa non può essere sostituita da altre esigenze.

Questo in teoria, ovviamente… Le problematiche che attanagliano, oggi, ad esempio, la giustizia penale in Italia, spaziano dalla lentezza dell’apparato giudiziario alla spettacolarizzazione del processo, dal disequilibrio tra gli attori del procedimento sino alla riforma della prescrizione e del sistema delle intercettazioni.

Direttore Barbano è evidente che il tema della giustizia, dei suoi mali e della sua inevitabile riforma l’affascini…

«Negli ultimi due anni ho dedicato alla giustizia e alla riforma del potere giudiziario due saggi grazie ai quali ho affrontato tematiche di non mera analisi teorica. Con “L’inganno. Antimafia. Usi e soprusi dei professionisti del bene”, ho fatto emergere gli abusi dell’antimafia, vera storia giudiziaria del nostro paese, in un’indagine senza sconti che ha sollevato il velo sulle contraddizioni della lotta alla mafia, tra sprechi, pregiudizi dannosi ed errori clamorosi. Un viaggio drammatico al cuore di un sistema invasivo e dispotico, che si è insinuato nella democrazia in nome di una retorica dell’emergenza, cancellando le differenze tra eccezione e ordinario, tra rispetto delle istituzioni e abuso di potere. Ho affermato, senza tema di smentita, che il Codice antimafia è il grimaldello per scardinare la porta già traballante dello Stato di diritto e mettere l’intera società sotto tutela giudiziaria»

Poi, con il più recente “La Gogna”, lei ha messo a nudo le derive del sistema giustizia…

«Un testo molto duro, nelle idee, nei contenuti e nella prospettiva di scarnificare e censurare gli arbitrii della magistratura. Lo sostengo a parole forti: l’Italia è una Repubblica fondata sull’equivoco di parole captate male, trascritte e interpretate peggio e mi riferisco, in questo, alla problematica delle intercettazioni telefoniche che non è e non può essere un solo esercizio stilistico di giudici, magistrati ed avvocati, con contorno di accademici e giornalisti di giudiziaria. Una serrata indagine sulla più clamorosa violazione del segreto istruttorio rimette in discussione le versioni ufficiali sul caso Palamara, apre piste mai battute, racconta la ragnatela investigativa che soffoca il sistema della giustizia italiana».

Il tema-Giustizia è di quelli scottanti, al di là di casi specifici come le degenerazioni dell’Antimafia o il celebre caso dell’Hotel Champagne, quando si consumò -parole sue- “la notte della giustizia italiana”…

«Qui è in gioco il destino della libertà personale di noi cittadini. Immaginiamo di restare anni e anni sotto inchiesta e magari di averne trascorsi una parte in carcere o agli arresti domiciliari, di avere perso il lavoro e di aver sconvolto la nostra famiglia e i nostri affetti, e alla fine di questo calvario di essere stati assolti. Poi moltiplichiamo ciò che abbiamo immaginato accadesse per noi per un milione mezzo di persone, e avremo -finalmente- la percezione corretta di ciò che avviene in Italia».

Cifre impressionanti, da giornalista. Sensazionalismo?

«No! Assolutamente no! La notizia, con tanto di calcolo, l’aveva data qualche anno addietro un autorevole magistrato come Massimo Terzi, inaugurando l’anno giudiziario del Tribunale di Torino, di cui era presidente dal 2015: pensate che si dimise dalla magistratura, in anticipo e polemicamente, nel 2021 in quanto, a suo dire alla carica di presidente della Corte di Appello di Milano il Csm gli aveva preferito un magistrato con meno titoli. Ebbene, aveva anche calcolato che un imputato ogni tre veniva assolto nei giudizi di primo grado di fronte al tribunale collegiale e un imputato su due di fronte al giudice monocratico. Aggiungiamo le assoluzioni in appello e innanzi alla Corte di Cassazione e proiettiamo quest’analisi su scala nazionale per almeno un decennio».

Ci dica lei il risultato!

«Avremo la cifra monstre di un milione e mezzo di indagati, arrestati, intercettati, interrogati, pur essendo innocenti, che attendono in media quattro anni per sottrarsi all’incubo di un’inchiesta penale che coincide con una persecuzione. E tutto ciò significa, dal punto di vista strettamente tecnico che il diritto penale abbia subito, nel nostro Paese, una totale “dilatazione” ben oltre i limiti tradizionali della sua “tassatività” e della sua “tipicità” -principi cardine del sistema penale nel nostro Stato di diritto- per diventare il racconto abnorme e totalitario della nostra vita di relazione, che porta con sé un enorme carico di dolore, privazioni, lutti, ferite tra le famiglie e le generazioni. Che si infligge addirittura per mano dello Stato, ovvero di quell’Ente costituito dalla sua nascita per tutelare i propri cittadini».

Tutto ciò è aberrante: lo sapevamo, ma ascoltare dati e realtà così impressionanti lascia esterrefatti anche chi vive lontano dalle aule dei Tribunali…

«Direi che a valle di tali abnormità giuridico-giudiziarie si situano frustrazioni, rabbia, desiderio di vendetta che contribuiscono ad avvelenare ancora il clima di una comunità già esasperata da un declino economico e civile che si trascina ormai da decenni. Forse sarebbe il caso di interrogarsi perchè abbiamo, del nostro paese, un racconto che appare praticamente rovesciato; forse sarebbe il caso di interrogarsi perché ci indigniamo se i processi prescritti arrivano al nove per cento e restiamo impassibili se i processi indebiti, inutili e ingiusti superano il cinquanta».

Lei che idea si è fatto, detto sinceramente? E non ci risponda da giornalista a caccia di scoop!

«Ho l’impressione che tutti noi, cittadini ed élite, abbiamo fatto nostra una visione giudiziaria della democrazia che assegna alla giustizia una funzione suprema di controllo dell’intero spazio civile. Ma vuol dire anche che questo controllo delegato rappresenta ormai per una parte della magistratura il fine ultimo in grado di giustificare qualunque mezzo, in nome di una visione, per così dire, “sostanzialista”».

Lei è un giornalista con una solida formazione giuridica: facile stare dalla sua parte…

«Non è questione di schierarsi, quanto di prendere coscienza della realtà. Se la pubblica accusa istruisce processi che in un caso su due sono diretti contro persone innocenti, la circostanza non suscita particolare turbamento. Di fonte a dati tanto drammatici, una parte dei magistrati del Pubblico ministero pensa e dice senza pudore che il processo è lo spazio civile necessario ad acclarare l’innocenza del cittadino. Se questo fosse vero, vorrebbe dire che, fuori dal processo, siamo tutti presunti colpevoli. Non poche volte, da giornalista impegnato sul campo, ho potuto registrare sconcertanti affermazioni di magistrati della pubblica accusa che, smentiti ad esempio dal Tribunale del Riesame che avrebbe sostenuto successivamente la pressoché totale infondatezza degli addebiti contestati agli indagati, avrebbero risposto che si trattava “della normale dialettica tra pubblica accusa e giudici di garanzia”».

Immagino che dopo aver scritto saggi giornalistici come “L’Inganno” e, soprattutto, “La Gogna”, avrà provato la sua buona dose di orrore…

«Guardi, l’orrore di simili affermazioni sta nell’idea che il processo sia una circostanza normale, e non piuttosto eccezionale della democrazia. Per comprendere quanto questa prospettiva sia deviante si deve parlare con i figli degli indagati e dei processati innocenti, le vittime ultime della giustizia. L’ampiezza del dolore da loro patito dimostra quanto invasivo possa risultare l’esercizio dell’azione penale, in nome di quel popolo assunto di questi tempi come fattore legittimante di ogni regressione civile».

Avrà pure da suggerire una “pars construens”…

«Per ribaltare il concetto di una “giustizia feroce” bisognerebbe avere il coraggio di rimettere in discussione la posizione del pubblico ministero nell’ordine giudiziario, rispetto alla sua carriera e alle sue funzioni, limitare l’uso della custodia cautelare, riportare il diritto penale dal reo al reato, tipizzando alcune vaghe fattispecie prive di offensività, cancellare la mostruosa legislazione antimafia fondata sul sospetto e la sua manomorta giudiziaria costruita sulle confische e, da ultimo, ridurre l’invadenza del processo penale nella vita della democrazia, depenalizzando, riducendo i tempi dei processi e aumentando le garanzie della difesa».

Inutile negare che i suoi saggi siano libri scomodi, che ciò che denuncia sia alquanto scomodo….

«Sfidare la giustizia dei presunti colpevoli è un compito arduo. Ma è l’unica battaglia per la quale vale la pena di mettere in gioco tutto il proprio coraggio, di cittadino e di giornalista».

A proposito di coraggio di giornalista: dopo le ultime vicende editoriali che l’hanno riguardata, da grande farà ancora il giornalista?

«La mia “gogna” è il rischio del mestiere che ogni giornalista che si rispetti assume con discrezione e responsabilità. Sono gli altri a poter giudicare quanto e in che modo è garantito, nel nostro Paese, il diritto-dovere di cronaca e l’indipendenza di chi lo esercita».

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Egidio Lorito