Battisti, giustizia è fatta, finalmente
L'editoriale del direttore di Panorama nel numero in edicola questa settimana dedicato alla cattura del terrorista latitante
In quasi 40 anni Cesare Battisti ha speso un fiume di denaro per sottrarsi alla giustizia italiana, ingaggiando fior di avvocati in Francia e in Brasile per evitare l’estradizione. Tuttavia non ha speso neppure un euro per dimostrare di essere innocente e di non essere l’assassino che una serie di sentenze definitive ritengono che sia. Gli mancavano i soldi per chiedere una revisione del processo? Certo che no, prova ne sia che gli investigatori italiani sono sulle tracce di chi lo ha finanziato in questi anni, molti - a parere degli inquirenti - gli italiani, parenti e compagni di lotta.
Nonostante l’incongruenza di una innocenza reclamata solo sulle pagine dei giornali e mai in tribunale, questa molto probabilmente sarà la tesi difensiva di Battisti e dei suoi amici. Una tesi che, nonostante venga portata avanti con insolito ritardo, rischia di fare breccia perfino su fronti che non possiamo definire solidali con l’ex terrorista dei Pac. Piero Sansonetti, direttore del Dubbio, ha scritto un editoriale in cui apre uno spiraglio, sostenendo che non tutto lo convince nelle condanne contro Battisti. E lo stesso ha fatto Vittorio Feltri su Libero. L’argomento principale è che il bandito dei Pac venne condannato in contumacia, dunque senza potersi difendere, e che i giudici gli avrebbero appioppato anche responsabilità che non erano sue, per comodo o per negligenza.
Ma le cose stanno davvero così? A leggere gli articoli pubblicati dieci anni fa proprio su Panorama si direbbe di no. Quando scoppiò il caso Battisti, Giacomo Amadori interpellò tutti i componenti di quella banda armata comunista chiamata Pac e ricostruì le responsabilità del terrorista-scrittore, pubblicando anche una lunga intervista a Pietro Mutti, uno dei compagni di lotta di Battisti.
Tuttavia, oltre a quegli articoli, è sufficiente rileggersi gli atti del processo per capire che il latitante acchiappato in Brasile dopo una fuga lunga 37 anni non è un uomo innocente a cui sia stato impedito di difendersi.
La tesi dell’ex militante dei Pac è che le accuse contro di lui sono frutto di testimonianze false estorte con la tortura. In realtà, alle sentenze che l’hanno riconosciuto colpevole di omicidi, ferimenti e rapine, si è arrivati sì con la confessione di numerosi pentiti, ma soprattutto con una marea di riscontri. È vero, ci fu un arrestato che disse di essere stato picchiato affinché confessasse la sua appartenenza ai Pac, ma l’indagine condotta da Armando Spataro, il pm che fece condannare gli assassini di Walter Tobagi e scoprì gli agenti della Cia che rapirono Abu Omar (lo stesso che da procuratore di Torino pochi mesi fa si scontrò con Matteo Salvini) escluse l’esistenza di qualsiasi tortura. Gli accusatori di Battisti, dunque, non cantarono perché vittime di sevizie, ma perché messi di fronte a fatti incontrovertibili. Alcuni parlarono perché, resisi conto del fallimento della lotta armata, potevano ottenere sconti di pena. Altri perché pentiti e dopo la pistola impugnarono la croce, convertendosi, come Arrigo Cavallina, l’ideologo del gruppo. Tuttavia, non ci sono solo le confessioni dei pentiti ad accusare Battisti, ma anche le testimonianze di coloro che lo videro uccidere.
Era la mattina del 6 giugno del 1978 quando a Udine, lui ed Enrica Migliorati, aspettarono fuori casa il maresciallo Antonio Santoro, capo delle guardie carcerarie della città, un uomo che Cavallina aveva incontrato quando era in prigione. I due finsero di baciarsi in strada e quando il sottufficiale passò, Battisti gli sparò alle spalle, uccidendolo. I fatti vennero rivelati da un pentito, Pietro Mutti, il quale si auto accusò di aver partecipato all’omicidio, ma poi vennero confermati da altri cinque componenti della banda armata, oltre che da testimoni oculari. La perizia balistica avvallata dalla ricostruzione dell’agguato e gli identikit degli autori materiali dell’assassinio non lasciarono spazio ai dubbi su chi premette il grilletto.
Andrea Campagna, agente della Digos di Milano, fu invece ucciso il 19 aprile 1979 sulla porta di casa della fidanzata, alla fine del suo turno di servizio. Il processo accertò che a sparare ancora una volta fu Battisti. Lo confessarono gli stessi compagni del terrorista-scrittore, ai quali proprio il killer illustrò i dettagli del delitto. E anche in questo caso le dichiarazioni trovarono conferma nelle testimonianze oculari, nel giubbetto indossato, nell’identikit.
Lino Sabbadin, il macellaio di Santa Maria di Sala, invece, non fu ucciso perché uomo delle forze dell’ordine, ma per aver reagito durante un «esproprio proletario», colpendo a morte il bandito che lo voleva rapinare. Battisti e un complice si incaricarono della «punizione» e il 16 febbraio del 1979 gli spararono a sangue freddo nel suo negozio. Anche in questo caso, ad accusare lo scrittore-terrorista, sono i suoi compagni, ma anche le descrizioni rese dai testimoni, che le sentenze ritengono «perfettamente coincidenti con i tratti e la figura di Battisti».
Insomma, tutto riscontrato. Su che cosa gioca dunque l’ex latitante? Sull’assassinio del gioielliere Pier Luigi Torregiani. A ucciderlo, riducendo anche il figlio Alberto su una sedia a rotelle, non fu Battisti, ma il gruppo di fuoco milanese, cioè Mutti e altri. Ma pur non essendone materialmente l’esecutore, Battisti partecipò alle riunioni in cui venne deciso l’agguato e per questo venne condannato. Siccome il delitto Torregiani avvenne lo stesso giorno di quello Sabbadin (la rivendicazione fu unica e i due commercianti furono definiti due porci per aver reagito a una rapina, uccidendo i banditi), l’ex terrorista gioca sulle date, sostenendo di essere stato condannato per due delitti avvenuti a distanza di centinaia di chilometri. Ma nessuno ha mai pensato che avesse il dono dell’ubiquità, semmai la colpa della correità.
Alla carriera criminale del finto martire della giustizia andrebbero poi aggiunte una ventina di rapine a banche, uffici postali e supermercati, qualche attentato esplosivo e il ferimento di due medici e di un agente. Tutto ciò in un paio d’anni, fra il 1978 e il 1979. Tutto ciò scritto nelle sentenze, con i dovuti riscontri e le successive confessioni.
Altro che processo in contumacia. Macché legislazione speciale. A difendere i terroristi, all’epoca, c’erano fior di avvocati di Soccorso rosso e se le condanne ci furono è solo perché i colpevoli erano tali. Tutto il resto è chiacchiera. Dopo quarant’anni, dunque, è ora di chiudere il caso Battisti.
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