Caro presidente Napolitano, faccia una nuova legge elettorale poi si dimetta
La Rubrica - Come Eravamo
Da Panorama del 2014
È il solito problema. Uscire di scena. Come uscire di scena. Quando farlo. Come giustificarsi ai propri e agli altrui occhi, quando la scelta sia libera e limpida. È il problema di Giorgio Napolitano. È troppo intelligente per non sapere che con la cacciata di Silvio Berlusconi dal Senato e con l’elezione di Matteo Renzi a valanga tutto è cambiato. La base elettorale della rielezione si è scoagulata, è un flusso emorragico che non lascia circolare il sangue, non dà nutrimento e linfa al secondo mandato.
Bisogna preparare l’uscita, attrezzarsi con urgenza e senso pratico, altrimenti si pesta l’acqua nel mortaio, si trasforma una milizia repubblicana onorevole, risultati innegabili, un profilo severo e significativo di custode dell’unità istituzionale del Paese in una resistenza alla realtà. Per il teorizzatore del principio di realtà, per l’uomo che ha lavorato contro i ribaltoni quando Berlusconi ce la faceva a stare in sella, che ha trovato una soluzione consensuale e inedita con il governo tecnocratico, che ha cercato di avere in Enrico Letta un campione della pacificazione, senza riuscirci, si annunciano giorni grigi e tristi.
Prima delle dimissioni, l’ultimo strappo positivo e inventivo, da mettere in calendario a Parlamento rinnovato, è la legge elettorale.
La Costituzione affida implicitamente poteri di persuasione e di spinta immensi a un capo dello Stato che debba fronteggiare il vuoto. E oggi la risultante proporzionale della sentenza babbiona della Consulta è un vuoto politico mascherato da ritorno indietro di 20 anni, una decisione che non viene dalla sovranità, la quale costituzionalmente appartiene al popolo e ai suoi rappresentanti, non ai giudici costituzionali legislatori improvvisati in una controversia giurisdizionale.
Qui Napolitano può forzare, collegarsi con il fenomeno politico espresso nelle primarie del Pd con l’elezione di un trentenne alla guida del partito di maggioranza delle Camere, stringere un patto anche con Berlusconi che valga come una testimonianza di pacificazione dopo la cacciata, adoperarsi per una riedizione del Mattarellum o comunque per una soluzione maggioritaria tutta e subito.
Sarebbe, questo strappo attivistico e testimoniale, anche un passaggio della staffetta indicativo della volontà di rinnovamento, che sola giustifica la saggezza un po’ spenta di noi vecchi. Uscire di scena con un’altra «rupture», in favore della capacità politica del popolo sovrano costituzionale, per offrirgli la possibilità di eleggere il suo governo direttamente, con una scelta vincolante e tassativa. Allora tutte le chiacchiere maligne sul secondo mandato, sulla sua costitutiva incapacità di esprimere un realismo dell’avvenire, invece che una rassegnazione pavida a un’evoluzione purchessia delle cose, crepuscolare e di nomenclatura, si dissolverebbero come per incanto. E il secondo mandato di Napolitano sarebbe compiuto in fedeltà a uno stile politico e a una cultura che è sempre stata impegnata, comunque, nel bene e nel male, nel giusto e nell’erroneo, a riempire i vuoti lasciati da un sistema pazzo, che verrà scardinato malamente e al ribasso senza un gesto finale e conclusivo del Quirinale e del suo inquilino dei tempi di maggior crisi.