Conte vs Grillo: c'eravamo tanto amati
Altro che Ucraina e Medio Oriente. Siamo all’atto finale del conflitto tra Grillo e Conte per la guida dei «ristretti» - elettoralmente parlando - 5 Stelle. Obiettivo per chi vince, e chi lo sostiene, rientrare nel sempre redditizio gioco del potere
E' il duello finale tra due nobilastri politici decaduti. Nella brughiera pentastellata, si sfideranno fino all’ultimo cavillo. Sono il Conte Mascetti e il marchese del Grillo, sostenuti dalle rispettive e brancaleoniche truppe. Lo scalpitante leader Giuseppi, da una parte. L’inconsolabile fondatore Beppe, dall’altra. È il più plateale scontro della Terza repubblica. I militanti sono richiamati al voto, tra il 5 e l’8 dicembre 2024. I Cinque stelle si fronteggiano ancora senza esclusione di colpi, dopo la prima vittoria dell’ex premier, per decidere le sorti del Movimento nato per cancellare ogni dogma e diventato frusto partito. La Costituente voluta da Conte si chiama Nova, ma è la solita minestrina riscaldata. I quesiti, presentati come un epocale cambio rispetto al passato, servono solo a ratificare la malconcia linea voluta dall’avvocato pugliese. L’apertura alle alleanze, intanto. Saremo «progressisti indipendenti» annuncia Conte con la solita supercazzola degna appunto dello spiantato Mascetti di Amici miei, che turlupinava l’ignaro vigile: «Come se fosse Antani». Qual è la linea politica, dunque? Boh. S’intuisce solo che il Movimento continuerà a fare il ruotino di scorta del Pd, a dispetto dei disastrosi risultati.
Ricapitoliamo allora le ultime prodezze alle elezioni regionali: sei per cento in Piemonte, quattro in Liguria, cinque in Umbria, tre in Emilia-Romagna. La domanda posta ai valorosi militanti sarebbe quindi da riscrivere: volete proseguire con l’ineluttabile agonia, cominciata alle europee dello scorso giugno? I Cinque stelle, appena sei mesi fa, si attestarono difatti su quella percentuale da discount che faceva presagire la svendita finale: 9,9 per cento. Con l’Elevato pronto a commentare beffardo: «Conte mi ha fatto un po’ tenerezza, ha preso più voti Silvio Berlusconi da morto che lui da vivo». Comunque sia, la storica Costituente detta pure le supposte priorità. In attesa di capire, per dirne una, la posizione sulla politica estera, si chiede ai votanti di benedire eutanasia, droghe leggere e carne coltivata. Un modo per rendere il partito più assonante al gruppo parlamentare europeo a cui s’è iscritto: The Left. Ovvero: la sinistra estrema e ideologica, a ulteriore riprova di decisioni già prese e riprese. Anche la regola dei due mandati, abrogata dal primo voto dei militanti, era stata metabolizzata e perfino preceduta da un notevole capolavoro dialettico: il «mandato zero». Permetteva ai consiglieri comunali di essere eletti tre volte. Un grimaldello benedetto nel 2019 pure da Grillo, che sul suo blog ironizzava: «Non vorrei che la gente abbia confuso la biodegradabilità con l’essere dei kamikaze».
La rivoluzione poltronara è stata preceduta dalla sconfessione di un altro dogma: l’accesso al sempre vituperato finanziamento pubblico con il due per mille. L’anno scorso il Movimento, che voleva aprire il parlamento come una «scatoletta di tonno», s’è pappato 1,9 milioni: più della Lega e il triplo di Forza Italia. Un clamoroso ribaltone a cui s’è ispirato il marchese del Grillo per il suo laconico tweet del 25 novembre scorso, dopo essere stato privato del ruolo di garante: «Da francescani a gesuiti». Il riferimento è al passato del Conte Mascetti: assiduo frequentatore in gioventù di Villa Nazareth, blasonatissimo collegio universitario, alla corte di cardinali e potentoni ecclesiastici. A dire il vero, però, nemmeno l’Elevato sembra pronto a rifare voto di povertà, come imposto ai primordi. Tanto da aver ingaggiato una battaglia legale per mantenere la consulenza da 300 mila euro per vaghi servigi comunicativi, che gli aveva generosamente concesso Conte pur di levarselo di torno. Il contratto, annuncia l’avvocato di Volturara Appula, non sarà rinnovato. Così come il ruolo di garante, che il fondatore spera però adesso di mantenere. Grazie a un cavillo, ha costretto l’ex premier a ripetere il voto. E ora conta sul mancato quorum. Anche se, scrutinio a parte, il comico è stato già mandato da tempo ai giardinetti. Così, l’ultimo duello sembra soprattutto un regolamento tra due debordanti e antitetici primi attori, che ormai si detestano platealmente. La vera novità emersa dalla Costituente, alla fine, sarebbe lessicale: qualora il leader dovesse trionfare, bisognerà smetterla di chiamarli grillini. L’alternativa è bell’e pronta, da tempo: saranno tutti contiani, ovviamente. Del resto, inutile girarci attorno. Il congressino approntato per dar parvenza di democrazia, in ossequio alle defunte origini, serve soltanto a benedire ufficialmente l’ormai imperante PdC: il Partito di Conte. Il più abile trasformista in circolazione, capace di passare da un governo con la Lega a uno con il Pd senza nemmeno scomporsi il ciuffo, è riuscito lestamente a compiere un’altra impresa ragguardevole: convertire il movimento del Vaffa in un partito personale vecchio come il cucco. Con tanto di scuola politica ispirata alle Frattocchie comuniste. E persino già pullulante di correnti interne: gli ortodossi legati al fondatore, i concilianti alla Chiara Appendino, gli antagonisti con Alessandro Di Battista. Chiuso nel suo villone, Grillo un po’ gongola per la magre figure dell’odiatissimo, un po’ si rammarica per l’ingratitudine dei vecchi adepti. Cosa ne sarebbe stato, per esempio, di Paoletta Taverna, ignota segretaria di poliambulatorio diventata sciantosa numero due del Senato? Adesso è pure vicepresidente vicario dei Cinque stelle, nonché responsabile degli enti locali: vista la riconosciuta arte diplomatica sancita dall’insolente e vecchio soprannome di «pescivendola», si occupa dunque di stringere accordi con gli alleati dem, già definiti «merde» e «truffatori». Conte, l’ha assoldata con un contratto di collaborazione sostanzioso: 70 mila euro l’anno. Stesso trattamento riservato a un’altra leggenda vivente: Vito «Orsacchiotto» Crimi, oscuro cancelliere in Corte d’appello a Brescia arruolato poi come senatore e issato perfino a «reggente» del Movimento. Per non parlare di Roberto Fico, già impiegato in un call center nonostante una notevole tesi sulla canzone neomelodica napoletana. Nel 2005 fonda uno dei primi Meetup. Diventa un epigono di Beppe. Nel 2010 si candida a presidente della Campania: ottiene un asfittico 1,35 per cento. Tre anni dopo, viene eletto deputato. Nel 2018 è presidente della Camera: la terza carica dello Stato, per intendersi. E adesso vorrebbe ritentare la corsa a governatore. La dissoluzione della regola del secondo mandato sembra scritta apposta per lui. Ma anche per Taverna e Crimi, devotissimi contiani, già parlamentari per un decennio. Nonché per tutta la truppa dei deposti, a causa dell’odiosa e arcaica regoletta: da Alfonso Bonafede a Fabiana Dadone.
Ma non smaniano solo gli ex ministri. La lista è sterminata. Come biasimare, d’altronde, le loro inesauribili brame politiche? Tanti sono stati costretti a tornare mestamente all’agra vita che il destino gli aveva riservato, prima di conoscere il vituperato Beppe. E adesso scalpitano per tornare a servire la patria. La guerra tra codicilli e sotto commi che riandrà in scena nel fine settimana sembra trita e ritrita, comunque. Il fregoliano azzeccagarbugli pugliese contro il vendicativo comico genovese. Grillo era stato riconfermato garante dei «valori dell’associazione M5s» e «custode dell’azione politica», come nel vecchio Statuto. Servì proprio a ripianare l’ennesima diatriba. «La sua proposta è medievale» attaccava l’ex premier. «Seicentesco» svillaneggiava il comico. Bisognerebbe però spostare in avanti il riferimento storico, per collocare il leader leguleio nella Sicilia risorgimentale. Quella del Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa: tutto deve cambiare perché niente cambi. La pomposa Costituente, alla fine, è solo un blando ricostituente. Alleanze «progressiste», dunque. «Sono esclusi in modo categorico accordi con i partiti» diceva invece Grillo. Basta con la vetusta regola dei due mandati. «Un pilastro fondativo» giura di rimando l’Elevato. Fine del ruolo del garante, poi. E nessuna remora sui soldi pubblici, anzi. Conte, insomma, chiede di sancire l’esistente. Il camaleonte ha già trasformato il Movimento nel suo contrario. Eppure, in vista del voto decisivo, arringa: «Siamo pronti a sporcarci le mani». Più di così, Giuseppi?