La furia censoria che cancella la cultura nel nome della guerra
L'Università Bicocca di Milano sospende (per poi ripensarci fuori tempo massimo) un corso di Paolo Nori su Dostoevskij: la sua colpa? Essere stato russo.
Adesso anche Fedor Dostojevskij è un putiniano. Dopo che a Reggio Emilia hanno cancellato una mostra del fotografo russo Alexander Grosky, all’Università Bicocca di Milano censurano un corso di quattro lezioni sul grande romanziere russo. Nel corso di una diretta sui social, lo scrittore Paolo Nori, che doveva organizzare l’iniziativa, ha raccontato che “il prorettore alla didattica mi ha comunicato la decisione, presa con la rettrice, di rimandare il percorso su Dostojevskij. Lo scopo è quello di evitare ogni tipo di polemica, soprattutto interna, in quanto momento di forte tensione”. Capite? Per evitare la tensione, mandiamo al macero l’intera letteratura russa. E questo dopo una settimana di guerra: non osiamo immaginare cosa potrà accadere tra un mese.
Ai tempi dei social, la guerra russo-ucraina la stiamo affrontando con la leggerezza di chi chatta sui social: a colpi di hashtag. Dove l’imperativo categorico, la parola d’ordine a prova di scemo è: dagli al russo, vivo o morto che sia. Come se tutti i cittadini della federazione russa, viventi o meno, fossero cugini di primo grado di Putin. Siamo evidentemente caduti vittima di una specie di analfabetismo di ritorno, che dovrebbe essere curato leggendo anche Dostojevskij, non certo proibendolo. Eppure questo analfabetismo è un’onda che ad ogni crisi travolge cittadini e istituzioni, ricchi e poveri, operai con la terza media e raffinati accademici. Fino al punto che un illustre rettore di un ateneo milanese, non l’ultimo dei passanti, forse in cerca di un quarto d’ora di celebrità, decide di bandire dalla sua università uno dei più grandi intellettuali di tutti i tempi. Come abbiamo potuto farci del male fino a questo punto?
Siamo oltre la cancel culture: siamo quasi al maccartismo di ritorno, alla caccia alle streghe moscovite. Ha detto bene lo stesso Paolo Nori: “Non solo essere un russo vivente è una colpa, oggi, in Italia: anche essere un russo morto che, quando era vivo, nel 1849, è stato condannato a morte perché aveva letto una cosa proibita”. Di questo passo entro il fine settimana avremo messo al bando la vodka, le matrioske, e l’insalata russa. Pensando così di scaricarci la coscienza per proclamarci accanto al popolo ucraino ferito.
Messa di fronte all’assurdità della sua decisione, l’Università Bicocca ha fatto retromarcia fuori tempo massimo: “L’Ateneo conferma che il corso si terrà – scrivono – la rettrice incontrerà Paolo Nori per un momento di riflessione”. Uno stop and go che ben testimonia non solo la follia di quella scelta, ma anche la confusione che regna sovrana nei nostri ambienti intellettuali. Che anziché contribuire all’elevazione spirituale della cittadinanza, ne alimentano la follia collettiva. L’aggressione di Putin è un atto ingiustificabile, ma di fronte a certe scelte, viene quasi da pensare che, se l’Occidente deve tramontare, non sarà per via dei carri armati di Vladimir. Ma semplicemente per colpa della nostra stupidità. Che, a differenza del gas, è una fonte naturale per noi inesauribile.