Pinelli: «Mi aspetto l'elezione del presidente il 3 febbraio»
L'ordinario di diritto pubblico alla Sapienza di Roma spiega i meccanismi che porteranno alla nomina del successore di Sergio Mattarella.
Tra procedura di voto, giostra dei nomi, ipotesi di semipresidenzialismo all’italiana (da rinviare, evidentemente, a data da destinarsi), siamo entrati nel periodo più caldo della dialettica politica e parlamentare in vista dell’elezione del Presidente della Repubblica, con la nostra Carta messa a dura prova da dinamiche di cordata più che di stampo costituzionale.
«La procedura rafforzata di voto» sottolinea il professor Cesare Pinelli, «è stata espressamente prevista per l’elezione del Capo dello Stato proprio a ribadire l’intento di sottrarlo all’indirizzo politico maggioritario». E sulle ipotesi di un semipresidenzialismo all’italiana, evocato nelle settimane passate e al centro di aspro dibattito, afferma di percepire «più malafede che ignoranza. Un po' poco per parlare, realmente, di semipresidenzialismo. Che è tutt’altra cosa».
Con Cesare Pinelli, romano, ordinario di diritto pubblico alla Sapienza di Roma e membro supplente della Commissione per la democrazia attraverso il diritto (cosiddetta Commissione di Venezia), Panorama.it ha cercato di approfondire la figura del presidente della Repubblica, ripercorrendone qualità, funzione e iter elettivo. Sino ai temi con cui sarà chiamato a confrontarsi il nuovo inquilino del Colle romano più importante per la politica nazionale.
Professore, a mente del primo comma dell’articolo 87 della nostra Costituzione, «il Presidente della Repubblica è Capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale». Cosa vuol dire?
«La prima parte della proposizione ascrive al Presidente una qualità, quella di “essere il Capo dello Stato”, mentre la seconda gli attribuisce una funzione, quella di “rappresentare l’unità nazionale”. Lo Statuto albertino faceva del Re il vertice gerarchico di tutte le altre istituzioni. La Costituzione parla, invece, di “Capo dello Stato” non in questo senso, ma per corrispondere alla regola di diritto internazionale generale che ne fa il rappresentante dello Stato italiano nei confronti degli altri Stati: in questo senso, si parla anche di accreditamento dei rappresentanti diplomatici, ratifica dei trattati internazionali, dichiarazione dello stato di guerra».
Una funzione solenne…
«Perché indica nel presidente colui che adotta atti di particolare solennità, come l’indizione in sede nazionale delle elezioni politiche e dei referendum e la promulgazione delle leggi. Si tratti di certificare, di ratificare o di dichiarare qualcosa: simili atti vengono a lui imputati per ragioni sempre ed esclusivamente di ordine formale. La “rappresentanza dell’unità nazionale” è invece una funzione che spiega sul piano sostanziale l’attribuzione delle singole funzioni intestate al Presidente, e fornisce la bussola che deve orientarne l’esercizio».
Si insiste sulla «neutralità» della sua figura. Cosa c’è di vero?
«Più che “neutrale” (che farebbe pensare a una figura al di sopra delle parti, priva di contatto con la politica e con le istituzioni), il presidente deve essere “imparziale” rispetto agli schieramenti parlamentari, disposti sull’asse maggioranza-opposizione. Imparziale significa non-parziale, e questa connotazione negativa è il risvolto di quella positiva del rappresentare l’unità nazionale».
Meuccio Ruini, presidente della “Commissione dei 75” incaricata di redigere, nel 1946, il testo della Carta costituzionale, definì il Presidente «forza permanente dello Stato, al di sopra delle fuggevoli maggioranze, il capo spirituale, più ancora che temporale della Repubblica».
«Una conferma viene dal fatto che i Costituenti decisero un mandato presidenziale di sette anni, comunque maggiore dei cinque della durata di una legislatura, in cui si presume ci sia una certa maggioranza parlamentare. La definizione di “capo spirituale” mi sembra invece impropria, prima che superata».
Siamo alla vigilia dell’elezione del nuovo presidente.
«L’articolo 83 della Costituzione affida l’elezione del presidente al Parlamento in seduta comune dei suoi membri, integrato da tre delegati per ogni Regione eletti dal Consiglio regionale (salvo che per la Valle d’Aosta che ne ha uno), in modo da assicurare la rappresentanza delle minoranze. Tale integrazione corrisponde proprio alla definizione del Presidente della Repubblica quale “rappresentante dell’unità nazionale” appena accennata: vale a dire di quella Repubblica “una e indivisibile” che “riconosce e promuove le autonomie locali”, richiamate dal collegato art. 5 della stessa Carta».
La sua elezione sembra una corsa a ostacoli…
«In un certo senso: perché il Presidente possa essere eletto, l’articolo 83 richiede la maggioranza dei due terzi dell’assemblea allargata nel corso dei primi tre scrutini, e della maggioranza assoluta a partire dal quarto scrutinio. La scelta di abbassare così la soglia di maggioranza è dettata da un’evidente ragione di ordine funzionale: in un collegio di mille e nove membri (i 630 deputati, i 321 senatori tra elettivi e a vita, nonché i 58 delegati regionali), richiedere a oltranza il raggiungimento della maggioranza dei due terzi per eleggere il Presidente potrebbe comportare il rischio di uno stallo paralizzante».
Ricordiamo che il “taglio” dei parlamentari del settembre 2020 sarà operativo soltanto nel nuovo Parlamento. Per cui…
«Avremo lo stesso profilo procedimentale: d’altra parte, la previsione della maggioranza assoluta dopo il terzo scrutinio - o a partire dal quarto, che dir si voglia - fa sì che il quorum sia più alto di quello della maggioranza parlamentare necessaria al Governo per ottenere la fiducia delle Camere: e infatti l’articolo 94 della Carta, sul punto, non richiede la maggioranza assoluta».
I presidenti Enrico De Nicola, Francesco Cossiga e Carlo Azeglio Ciampi riuscirono nell’impresa di risultare eletti al primo colpo, mentre Luigi Einaudi, Giovanni Gronchi, Giorgio Napolitano I° e Sergio Mattarella vennero eletti al quarto scrutinio.
«Frutto delle contingenze storico-politiche! Aggiungiamo che la circostanza che alcuni Presidenti fossero stati eletti a maggioranza assoluta non ha mai comportato che costoro avessero seguito l’indirizzo politico delle maggioranze di governo nell’assolvimento delle loro funzioni».
Siamo curiosi del significato politico di «scrutinio segreto».
«Lo richiede l’articolo 83 della nostra Costituzione. Tale modalità di voto, che vale in generale quando le assemblee parlamentari debbono procedere all’elezione di determinate cariche (compresi giudici costituzionali e membri del Consiglio superiore della magistratura), è stata espressamente prevista per l’elezione del Capo dello Stato a ribadire l’intento di sottrarlo all’indirizzo politico maggioritario».
A proposito di quest’ultima sfumatura…
«Eh, c’è da ricordare che si è poi subito imposta, in via consuetudinaria, la regola secondo cui le votazioni non sono precedute dalla presentazione di candidature e quindi di programmi, cosa che comporterebbe un’inaccettabile politicizzazione della carica. Che, come detto, non è prevista».
Intanto il settennato di Sergio Mattarella scadrà il prossimo 3 febbraio, ovvero nell’anniversario del suo giuramento. Cosa accadrà?
«L’articolo 85 del nostro testo costituzionale prevede che il Presidente della Camera convochi in seduta comune il Parlamento e i delegati regionali per eleggere il nuovo Presidente della Repubblica 30 giorni prima che scada il termine del precedente mandato, e che “se le Camere sono sciolte, o manca meno di tre mesi alla loro cessazione, la elezione ha luogo entro 15 giorni dalla riunione delle Camere nuove. Nel frattempo sono prorogati i poteri del Presidente in carica”. Quindi, visto che il settennato decorre dalla data del giuramento, la convocazione dei grandi elettori, indicati dall’articolo 83, avverrà il prossimo 3 gennaio».
In pratica il 3 febbraio dovremmo avere già il nome del nuovo presidente?
«Spero di sì. È vero che per eleggere alcuni Presidenti sono stati necessari moltissimi scrutini, ma erano altri tempi. Ho l’impressione che, da un certo punto in poi, la mancata elezione trasmetterebbe un senso di incertezza politica sul futuro del Paese che sarebbe dannoso per l’Italia, soprattutto in questa particolare fase storica».
Ha fatto discutere la proposta del Ministro Giorgetti di Mario Draghi al Quirinale. Uno sconquasso costituzionale, si è detto…
«Guardi, finché è il ministro Giorgetti a parlare di “semipresidenzialismo di fatto” per ragioni politiche, non mi meraviglio. Se invece lo fanno i più rinomati giornalisti del Paese, affermando nei talkshow televisivi che abbiamo già visto di tutto, nel senso che, da Oscar Luigi Scalfaro in poi, i presidenti hanno esorbitato dalla loro carica, e che quindi il semipresidenzialismo è già di fatto tra noi, allora vedo più malafede che ignoranza».
Vena polemica, professore.
«Ma no, semplicemente non credo che giornalisti rinomati confondano davvero quanto spetta ai presidenti in periodi di crisi parlamentare: ossia fare il possibile, fino alla soglia dell’impossibile, per nominare un presidente del Consiglio il cui governo riesca ad avere la fiducia parlamentare (così rientrando perfettamente in quanto richiede loro la Costituzione), con l’ipotesi che il presidente della Repubblica svolga funzioni attive di governo proprio al posto del presidente del Consiglio».
Situazione estrema, quest’ultima…
«Già! E verificatasi, a mio avviso, in un solo caso, ovvero all’epoca della vicenda libica nel 2011. Un po’ poco per parlare di semipresidenzialismo. Che è tutt’altra cosa».
Proviamo a tracciare un identikit del nuovo presidente?
«È’ sicuramente molto difficile. Casomai, quel che può fare uno studioso di diritto costituzionale è indicare alcuni problemi che il futuro inquilino del Quirinale incontrerà non solo nell’immediato. Per esempio, come esercitare la propria forza persuasiva nei confronti della società senza invadere le funzioni delle istituzioni politiche (è il caso degli appelli di Mattarella a vaccinarsi); quali risorse saranno necessarie per riavviare il funzionamento del sistema dei partiti dopo Draghi (dovunque egli si troverà); come aiutare a rafforzare il patrimonio di credibilità che l’Italia è riuscita a conquistarsi durante la pandemia a livello internazionale ed europeo».
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