Giovanni Toti, ultimo ostaggio della solita guerra che la magistratura ha dichiarato alla politica
La mancata revoca dei domiciliari per il governatore della Liguria ha dimostrato come il vero intento dell'inchiesta siano le sue dimissioni. Ci vorrebbe un segnale forte, magari proprio dal Pd
Chi non indossa i paraocchi dell’ideologia dovrebbe finalmente riconoscerlo ad alta voce, senza girarci intorno: la Liguria è zona di guerra. La Liguria è l’Ucraina italiana. Non nel senso che piovono bombe in riviera: ma effettivamente è lì, a Genova, che corre la linea Maginot del conflitto, atomico e senza regole, tra politica e magistratura.
Se la Liguria è territorio bellico, il governatore Toti ricopre ormai, suo malgrado, il ruolo dell’ostaggio. E diciamo ostaggio non perché sia sotto sequestro, o sia stato rapito da questa o quella toga. No, con la parola “ostaggio” intendiamo protagonista involontario di una situazione surreale che non ha eguali nella storia del nostro Paese e forse nell’Occidente tutto. Non si è mai visto un contesto in cui l’espressione politica di una Regione importante, che accoglie peraltro il principale scalo logistico della Nazione, sia di fatto congelata sine die, in un limbo di cui non si vede l’uscita.
Qui non c’entrano più le eventuali responsabilità penali di Toti, al momento solo ipotizzate, dacché non vi sono sentenze né processi, ma solo indagini. Qui non c’entrano più solo i diritti del presidente, bensì l’integrità della Presidenza, che è patrimonio di tutti (anche degli avversari politici del governatore), e che non può restare paralizzata per via delle scelte, più o meno forzate, compiute da altri poteri. La mezza bandiera bianca alzata dal governatore, cioè il proposito di non candidarsi più, non è bastata a riguadagnare agibilità politica. E nemmeno è bastato il parere autorevole di Sabino Cassese, che invoca inutilmente la Costituzione, quando dice che occorre bilanciare le misure cautelari con altri diritti, come il buon andamento della pubblica amministrazione (che non può paralizzarsi) nonché il rispetto della volontà popolare.
L’impressione è che il governatore venga sospinto con metodi spicci verso una strada senza uscita che sfocia sulle dimissioni. E questo sulla base di un ragionamento spaventosamente semplice: tu ti dimetti, e noi ti liberiamo. Questa equazione già dovrebbe bastare a scatenare il dibattito. Già dovrebbe bastare a iniziare un serio confronto, tra politici, editorialisti, e anche rappresentanze dei magistrati: un confronto che dovrebbe avere questo titolo: “Facciamo qualcosa, perché robe del genere nemmeno in Uganda”.
Non sappiamo, come scrive oggi Giuliano Ferrara, se quello avanzato al governatore debba essere inteso come “un ricatto” contro il quale occorre suonare un “allarme democratico”. Sappiamo però che tacere, o fingere che il gioco politico non venga falsato, come sta facendo certa parte della sinistra politico-editoriale, è moralmente inaccettabile. Peggio ancora: qualcuno si sta fregando le mani già pensando alla prossima tornata elettorale, da combattere agitando sentenze di colpevolezza “fatte in casa”, e dimenticando che in Italia una persona è innocente fino a sentenza definitiva.
In un Paese normale il Pd, che accoglie personalità oneste e di buon senso, dovrebbe pretendere un gioco elettorale pulito. Dovrebbe rifiutarsi di scendere in campo in una partita in cui l’avversario, pur avendo la fedina penale pulita, sta per essere cacciato dallo stadio. Insomma dal Pd ci si aspetta una difesa delle istituzioni, minacciando al limite di disertare il voto, se prima non si ristabilisce un minimo di normalità. E’ chiedere troppo, considerando che ciò che accade oggi in Liguria potrebbe accadere ovunque domani, a prescindere dal colore politico dei protagonisti?