«I Governi nascono così, sono normali turbolenze parlamentari»
L'opinione del prof. Ignazi, politologo, sui modi e sui tempi di formazione di questo governo (che sono sempre le stesse)
Piero Ignazi, politologo dell’Università di Bologna, non fa sconti sulla naturale bagarre nella formazione del governo, «in quanto trattasi di una consuetudine tipica di forme parlamentari come la nostra, in cui la dialettica politica trova nel Parlamento, ovvero nei partiti, la sua sede naturale».
E proprio sul governo che sta per nascere, Ignazi ha sottolineato come «la tradizionale liturgia messa in campo dai partiti farà la sua parte anche in quello che dovrebbe incoronare Giorgia Meloni».
Panorama.it ha incontrato il politologo bolognese per un confronto sul campo politologico: dalla constatazione che la nostra rimane una repubblica parlamentare con un ruolo forte dei partiti alla ricostruzione della tradizionale liturgia, la formazione di ogni governo sembra rispondere a regole consolidate nei decenni, «alle quali neanche il governo Meloni riuscirà a sottrarsi».
Professore, siamo alla vigilia della formazione del governo: ci attendono giorni infuocati?
«Non credo, ma se anche fosse non dovremmo stupirci molto: in fondo viviamo in un sistema parlamentare che si fonda su un sistema partitico caratterizzato da una frammentazione fisiologica. Attualmente abbiamo almeno sei componenti principali nell’attuale Parlamento uscito dalle urne del 25 settembre a contendersi la piazza d’onore e alcune formazioni pulviscolari (un tempo avremmo detto “cespugli”) disseminate tra gli scranni del nuovo emiciclo romano. Il sistema inevitabilmente si basa su coalizioni, giochi di forza, con frange pronte a creare accordi più o meno velati con partiti o anche correnti dell’altro schieramento».
Intanto registriamo il ritorno alla dinamica bipolare.
«Certo, i due poli del centrodestra e del centrosinistra sono ritornati a contendersi lo scenario politico nazionale dopo che per un decennio circa la geografia politica era apparsa tripolare. Nella legislatura 2013-2018, infatti, versavamo nella piena situazione tripolare, tre poli del tutto antagonisti tra loro (Movimento Cinquestelle, centrodestra e centrosinistra), mentre nella legislatura successiva, quella tra il 2018 e il 2022, le cose si complicarono ulteriormente».
Ci aiuti a ricordare…
«Si formò una divisione in termini di scelta elettorale tra il polo centrale dei Cinque stelle, diventato nel frattempo la “cuspide” del sistema con il suo 33% dei consensi -un risultato che una singola forma politica non raggiungeva da tempo- e i tradizionali cdx e il csx. In quel frangente le diverse forze politiche si allearono a fasi alterne: prima assistemmo all’alleanza di parte del centrodestra (ovvero la Lega) con i 5Stelle e poi a quella tra Pd con i 5Stelle».
Governo “a geometria variabile”?
«Immagine aderente alla realtà di quegli anni, chiusi dal governo Draghi che, utile ricordarlo, avrebbe mischiato le carte, con un governo di unità nazionale, dal quale rimasero esclusi i soli Fratelli d’Italia».
Le elezioni del 25 settembre ci hanno riconsegnato il tanto agognato bipolarismo, allora!
«Registriamo l’assenza del “terzo polo” autonomo rappresentato dai 5Stelle, traghettati ora definitivamente a sinistra».
In termini politologici cosa ha significato la vittoria di Fratelli d’Italia?
«Almeno due cose, e non in contraddizione tra loro: ovvero che gli italiani vogliono ritornare al bipolarismo, e che è stata premiata la coerenza del partito di Giorgia Meloni capace di rimanere unica forza all’opposizione, con il rischio di spaccare anche la componente naturale del centrodestra tradizionale di cui era parte integrante».
La stupisce il voto a destra?
«Il voto a destra non deve assolutamente stupirci, rientra nella normalità, esattamente come non ci stupì, nel 2013, l’irruzione del Movimento 5Stelle sulla scena politica nazionale. In entrambi i casi coerenza e dirompenza politica sono stati premiati con percentuali di ragguardevole peso. Anzi, la percentuale riportata da Fratelli d’Italia non deve essere intesa come eclatante, non essendo inserita all’interno del blocco di centrodestra che ha raggiunto una delle percentuali più basse dal 1994 ad oggi. Nulla di strano dunque: siamo tornati all’antico».
Gli elettori del centrodestra sembrano ancora non fare molta distinzione tra le tre tradizionali componenti interne.
«Negli anni hanno dimostrato una notevole disponibilità a passare dall’una all’altra e all’altra ancora a seconda delle circostanze storiche e della figura apicale che di volta in volta maggiormente la rappresentava. Era accaduto con gli anni di dominio berlusconiano, cui era seguito l’interregno di Matteo Salvini: ora trovare gli elettori arroccati attorno alla figura di Giorgia Meloni dimostra semplicemente che il cerchio interno si è chiuso, bussando alla porta della componente più estrema della coalizione. E direi anche di quella più attrattiva».
Giorgia Meloni è stata premiata per la sua coerenza?
«Essere rimasta unica forza politica all’opposizione del governo Draghi alla fine ha premiato. Al di là della stima personale e tecnica del personaggio, quel governo -in fin dei conti- non raccoglieva la maggioranza dei consensi tra l’elettorato. Tra l’altro è curioso che ci sia (stata) un’alta percentuale di elettori di Fratelli d’Italia che nutriva una grande stima personale per Mario Draghi senza estenderla al governo che ha guidato il nostro Paese. Bizzarrie della politica».
Mi perdoni la domanda provocatoria: Draghi alla guida di un governo totalmente di centrodestra?
«Domanda di fantapolitica».
Intanto il centrodestra ha incassato le nuove presidenze di Senato e Camera: non senza strappi…
«Abbiamo assistito all’astensione dei forzisti sul nome di Ignazio La Russa e al soccorso (definito “rosso”) da parte probabilmente – non ci sono prove ovviamente - del gruppo di Renzi e Calenda. Ciò che è avvenuto, lo ripeto come all’inizio, non deve stupirci più di tanto. O, meglio, che non stupisce il politologo, in quanto trattasi di una consuetudine tipica di forme parlamentari come la nostra, in cui tutta la dialettica politica trova nel Parlamento la sua sede naturale».
Partitismo parlamentare…
«Veleni e sotterfugi trovano, da sempre, nelle Camere il loro habitat naturale, in cui la stessa vita politica non avviene spesso alla luce del sole. In fondo abbiamo assistito, per l’elezione del Presidente del Senato, alla replica dei celebri “101 di Prodi”, ovvero all’azione dei centouno grandi elettori del centrosinistra che tradirono Romano Prodi il 19 aprile del 2013, alla vigilia esatta della sua possibile elezione alla presidenza della Repubblica».
Ci spieghi meglio, professore!
«Questo genere di comportamenti riflette il costume politico tipico delle élite parlamentari, che, a loro volta, riflettono l’ambiguità del rapporto tra eletti ed elettori. Un comportamento grave perché il rappresentante è chiamato in ogni caso a rendere conto del suo operato anche nei confronti del gruppo parlamentare cui è iscritto e della coalizione cui appartiene. In questo modo, in termini più politologici, la delega che è stata affidata al rappresentante lo obbliga al dovere di trasparenza, al di là del “vincolo di mandato”».
Parlare di trasparenza, in politica, è sempre difficile…
«Certo, ma non possiamo prescinderne. Nel linguaggio politologico questo comportamento, che definiamo con il temine di accoutability, ovvero rispondere per il comportamento politico tenuto (per quello che si è fatto, in pratica…), alla fine diventa impossibile quando ci si trincera dietro un paravento del tutto fuori luogo».
Torniamo alla pedissequa applicazione del manuale Cencelli?
«Non credo. Ho sentito che il termine è stato nuovamente tirato in ballo proprio nelle ultime ore, ma sono passati quei tempi. Nella Democrazia cristiana, ad esempio, esistevano ben dodici correnti interne, tutte perfettamente strutturate come tanti piccoli partiti. Diciamo semplicemente che la politica segue le sue liturgie, le sue regole interne: trattative, bluff, giri di valzer fanno parte di un mondo che sembra lontano da noi, ma che in realtà è in mezzo a noi. E’ tutto fisiologico, non c’è nulla di cui scandalizzarsi».
Lei parla da politologo…
«Capisco. Quando poi le trattative comportano dei “do ut des” cosi opachi, allora certo che sono da censurare.».
E veniamo alla formazione del governo.
«Si registrano una serie di richieste molto complesse tra gli alleati del centrodestra, come quella di Forza Italia per il dicastero della giustizia e della Lega per l’Interno. Direi che entrambe le situazioni recano criticità di non poco conto. Per le pregresse situazioni giudiziarie del presidente Berlusconi sarebbe poco opportuno far salire sullo scranno di Via Arenula (sede del ministero in oggetto) un parlamentare indicato direttamente dall’ex presidente del Consiglio: sarebbe un segnale inquietante. La Lega anela per Matteo Salvini l’incarico agli Interni: per alcuni avrebbe demeritato, per altri assolutamente no. Vedremo».
Il nodo-giustizia potrebbe riservare sorprese?
«Ognuna delle componenti del centrodestra ha indicato un nome a sè gradito: l’ex procuratore capo di Venezia Carlo Nordio da Fratelli d’Italia, l’avvocato Giulia Bongiorno dalla Lega e il collega Francesco Paolo Sisto da Forza Italia. In subordine sempre i meloniani potrebbero convergere sull’ex presidente del Senato Elisabetta Alberti Casellati. La scelta dovrebbe spettare, in virtù del ragionamento riportato poc’anzi, al partito di maggioranza relativa, ma la decisione potrebbe risentire del classico incastro delle caselle degli altri ministeri».
Il dicastero degli Esteri non potrà non tenere conto della guerra in corso…
«Auspicabile un nome di peso spendibile nel consesso internazionale, europeo soprattutto: e qui quello dell’ex presidente del Parlamento europeo, il forzista Antonio Tajani, mi sembra assolutamente condivisibile. Non possiamo dimenticare la metamorfosi positiva mostrata da Luigi Di Maio che arrivato in assoluta sordina, successivamente ha mostrato anche capacità inaspettate. Certo, ha pesato la nostra diplomazia italiana che ha guidato la politica estera tra europeismo, americanismo ed atlantismo».
Non è storicamente un ministero di primo livello, nonostante l’Italia sia il più grande giacimento culturale del mondo.
«Quello alla cultura sta facendo parlare di sé, tanto da aver fatto destare il collega Giuliano Urbani che ne fu ministro venti anni addietro. Occorrerebbero figure in grado di replicare, a mio avviso ovviamente, il buon lavoro operato da Dario Franceschini tra il 2014 e il 2018 (occupandosi, tra l’altro, della spinosa questione delle Soprintendenze) e da Gaetano Manfredi alla guida del Miur tra il 2020 ed il 2021».
E veniamo alla Salute: la pandemia ha inciso profondamente.
«La mia ricetta mira al deciso rafforzamento delle strutture sanitarie pubbliche, considerate le allarmanti condizioni in cui versa una parte del sistema nazionale, che ha il merito di poter contare su notevoli professionalità quasi sempre lasciate ai margini. L’esempio dei sanitari spremuti come limoni nei terribili mesi del lockdown e poi lasciati senza un riconoscimento effettivo della loro professionalità, è una pagina nera del nostro sistema a cui il nuovo ministro dovrà mettere fine. Riconoscendo i meriti di chi ha operato con dignità e competenza. Ecco il profilo del nuovo ministro».
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Piero Ignazi, originario di Faenza, classe 1951, politologo dell’Università di Bologna, si è perfezionato all’Istituto Universitario Europeo di Firenze e al Departmente of Political Sciences del Mit di Boston. Visiting professor in numerose università (Tunisi, Parigi, Treviri, Denver, Lille, Oxford, Madrid, Montreal), è stato presidente del Corso di laurea in Relazioni internazionali e direttore del Dipartimento di Scienze politiche e della facoltà felsinea. Membro dell’Editorial board dell’“International political sciences review e del comitato scientifico della Rivista italiana di Scienza politica. Autore di numerosi saggi sui partiti politici, tra cui spiccano quelle sulla destra italiana ed europea. Ha coniato per il Msi-Dn la definizione di “polo escluso”.
Panorama.it Egidio Lorito, 14/10/2022