Il ritorno del diritto feudale in Sicilia
(Ansa)
Politica

Il ritorno del diritto feudale in Sicilia

Una norma regionale di fatto reintroduce le differenze sociali per classe e censo

Nel combattere il coronavirus si è scatenata la fantasia giuridica di governatori e sindaci con misure di grande buona volontà ma spesso al limite del paradossale, come la rimozione delle panchine pubbliche a Barletta e a Castagnole Lanze oppure l'accesso ai supermercati in ordine alfabetico ad Angri.

Ora in Sicilia si è arrivati a un clamoroso ritorno al passato, reintroducendo una forma di differenziazione sociale per classe e censo.

Nella Ordinanza contingibile e urgente n. 17 del 18 aprile 2020, il Presidente della Regione prevede l'obbligo di registrazione e isolamento per tutti coloro che facciano ingresso in Sicilia, ma poi all'art. 11 esonera da tali obblighi una serie di categorie e cioè:

a) operatori sanitari pubblici e privati e quelli dei servizi di pubblica utilità e dei servizi essenziali di cui alla legge 12 giugno 1990, n.146;

b) appartenenti alle Forze dell'ordine, alle Forze armate, il personale appartenente ai ruoli della Magistratura, i titolari di cariche parlamentati e di governo;

c) autotrasportatori e personale delle imprese che assicurano la continuità della filiera agro-alimentare e sanitaria;

d) lavoratori pendolari e gli equipaggi dei mezzi di trasporto.

Ci manca solo che venga introdotto anche il lasciapassare del valvassore, quale salvacondotto per circolare liberamente!

Davvero si riesce a comprendere la finalità di tale esclusione. Non è basata su ragioni sanitarie, tipo essere immuni o guariti, ma semplicemente dalla appartenenza a una determinata "classe", senza nessuna valutazione di rischio sanitario. I parlamentari entrano liberamente in Sicilia, i panettieri no. Perché?

Sembra quasi di essere andati nuovamente a una forma di società divisa per classi e ceti. A mia memoria si torna indietro di quasi due secoli, cioè alle leggi elettorali dell'Ottocento, che ammettevano al voto soltanto determinate classi di popolazione, in ossequio alle tradizioni degli stati feudali e aristocratici. Così, ad esempio, era regolato il diritto di voto nel Regno d'Italia.

Alle elezioni del 1861 votarono poche decine di migliaia di sudditi su 22 milioni di abitanti, perché l'elettorato era legato a essere di sesso maschile, alfabetizzati oppure per appartenenza a determinate categorie di censo. Mi piace ricordare che l'art. 3 del decreto 17 dicembre 1860, n. 4513 ammetteva comunque al voto:

- I Membri delle Accademie e delle delle Camere di Agricoltura, di Commercio ed Arti,

- I Professori universitari e delle Regie Accademie di belle arti.

- I Professori degli Istituti pubblici d'istruzione secondaria classica e tecnica, e delle Scuole normali, e magistrali.

- I Funzionari ed Impiegati civili e militari in attività di servizio, o che godono di una pensione di riposo, nominati dal Governo di S. M., o addetti agli Uffici del Parlamento.

- I Membri degli Ordini equestri del Regno.

- Tutti coloro che hanno conseguito il supremo grado accademico di laurea, od altro equivalente in alcuna delle facoltà componenti le Università del Regno.

- I Procuratori presso i Tribunali e le Corti d'Appello, i Notai, Ragionieri, Liquidatori, Geometri, Farmacisti e Veterinari approvati.

- Gli Agenti di Cambio, e Sensali legalmente esercenti.

Differenziare la popolazione per appartenenza a classi è un concetto giuridico contrario alla democrazia e alla pari dignità umana proclamata anche nell'art. 3 della nostra Costituzione prima ancora dell'eguaglianza. In fondo è come se questa emergenza sanitaria stia creando confusione anche nei concetti giuridici fondamentali, limitando in maniera non solo irrazionale ma anche irragionevole i diritti delle persone. Eppure, dovremo essere cittadini e non più sudditi.

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Alfonso Celotto