L'immagine del pacifismo ad uso social: inutile e che discrimina tra morti di serie A e di serie B
È diventata virale la foto dedicata alla situazione di Rafah che crea l'assurda differenza tra morti buone e morti cattive
Scorrendo le pagine dei social mi sono imbattuto da qualche giorno in una immagine che viene via via sempre più condivisa; l’avrete vista anche voi. È una tendopoli ripresa dall’alto con la scritta:«All Eyes on Rafah». Immagine (creta dall’intelligenza artificiale) diventata in fretta il simbolo dei pacifisti di tutto il mondo e capace di raccogliere oltre 40 milioni di condivisioni grazie anche ad un tasto, quasi ipnotico: «tocca a te». Insomma un tasto in grado di dividere il mondo in due: da una parte i pacifisti, bravi belli e buoni, dall’altra i guerrafondai (tutto questo nelle interpretazioni un tot al kg che vanno per la maggiore su Instagram e fb).
Per quello che vale lo dico in maniera chiara: io passo, non posto, non condivido. E non perché mi piaccia vedere la gente di Gaza morire, non perché i video e le notizie che arrivano ogni giorno dalla Striscia di Gaza mai lascino indifferente, anzi. Il mio no è chiaro e semplice: io non faccio distinguo.
La vita di un palestinese vale quella di un israeliano, uno di quelli uccisi il 7 ottobre. La vita di un palestinese vale tanto quanto quella di uno dei 20 e più ucraini che due giorni fa stavano facendo la spesa in un centro commerciale i Kharkiv centrato da un missile russo a lungo raggio e morti nel modo più assurdo, mentre stringevano tra le mani non un’arma ma un sacchetto della spesa.
Io mi indigno per i morti di raffa, certo, ma anche per quelli di Kharkiv. E mi indigno per i giovani che vengono impiccati anche oggi in Iran solo perché vogliono un po’ più di libertà o ad esempio girare, se sei una ragazza, senza il velo in testa. Mi indigno per i morti quotidiani in Ucraina, che abbiano una divisa o l’altra. Mi indigno per le vittime di queste e di tutte le altre decine di guerre scoppiate in tutto il mondo. Mi indigno per i barconi di migranti affondati in queste ultime settimane e di cui non si parla se non il fatto che queste stragi siano avvenute nella nuova rotta di chi scappa dall’Africa verso le Canarie. Mi indigno per i cristiani uccisi per la loro fede ogni giorno, compreso oggi, in qualche parte del mondo. Mi indigno per le vittime delle quasi 70 guerre in essere oggi sulla Terra.
Non solo non riesco a trovare differenza tra un morto e l’altro, ma trovo questo si assurdo che ci sia chi lo faccia con totale libertà e convinzione. Come fanno ad esempio al Comune di Bologna dove oggi hanno esposto la bandiera palestinese dimenticandosi degli altri, solo perché non utili per un battaglia politica (di sinistra).
Quella bandiera non è pacifismo, è semplicemente tifo, quasi da stadio, tifo politico. Siamo pro Palestina, anzi, forse la definizione più adatta sarebbe: siamo contro Israele.
No, quella immagine la guardo, la rispetto ma non è mia. Anche perché il suo valore vale il tempo di un condividi, un clic sullo smartphone mentre annoiati, guardiamo la tv. Si clicca e si condivide per curiosità di vedere il numero crescere; si clicca per non fare brutta figura con gli altri (pronti a giudicarti e a catalogarti come guerrafondaio sionista) ed ovviamente si clicca per convinzione.
Ma, soprattutto, la realtà è che quella foto è del tutto inutile, non serve a nulla. Come non servì a nulla mettere la bandiera francese dietro le nostre foto profilo all’indomani dell’attentato di matrice islamica a Charlie Hebdo; secondo voi infatti oggi nelle banlieu è tornata l’integrazione e la serenità sociale? O forse è solo la quiete prima della tempesta in arrivo magari durante le olimpiadi per le quali l’allerta anti terrorismo è ai livelli più alti?
Il pacifismo social quindi lo lascio agli altri, molti dei quali si sentono buoni bravi (loro…). Io non faccio differenze tra un ragazzo di Rafah ucciso da una bomba ed una ragazza israeliana violentata ed ammazzata da un miliziano di Hamas. Riesco solo a pregare per il loro destino terribile, l’unica cosa che li accomuna. Ma l’unica cosa che conta.