La cultura dimenticata
Politica

La cultura dimenticata

Nelle discussioni sulla Fase 2 e la riapertura nessuno parla di spettacolo, musica, arte, come se nulla fosse. Lancia l'allarme Nazzareno Carusi, membro del cda della Scala di Milano

Nella sovrabbondanza un po' surreale di consiglieri chiamati dal governo per affrontare il dramma del Coronavirus, la commissione presieduta da Vittorio Colao, grazie alla personalità di questi, ha una valenza certa. Ma al suo interno, nonostante il numero di commissari, manca un riferimento a quel che attiene alla cultura. Ed è un'assenza grave.

Tante voci sentiamo infatti in queste settimane, e giustamente, a favore d'un suo sostegno poderoso. Molte, autorevoli e sensate. Altre, meno. Dunque, resta il pericolo del chiacchiericcio di sottofondo ed è appunto per evitarlo e per aiutare l'esercizio della critica a fare distinzioni e agire di conseguenza che, pur considerando come il MiBACT, a differenza d'altri ministeri, non sia in mani inesperte, in questa commissione sarebbe stata buona cosa invitare chi abbia dimestichezza coi beni e le attività culturali e del turismo. Cioè scrivere, immaginare, comporre, recitare, suonare, cantare, disegnare, insegnare... Insomma, fare arte oggi come la nostra civiltà l'ha fatta da millenni, custodirla, proporla, farne mostra e invitare il mondo a visitarne la bellezza che è la nostra forza più potente. Cose che quasi tutte, essendo il Sars-CoV2 in giro foss'anche solo un po', confinano con l'impossibile.
Non è ritrosia o chiusura al nuovo, la mia. E' proprio che questa crisi, incendiata dalla tragedia che attraversiamo, rischia di uccidere in un amen la vitalità della nostra cultura nel suo insieme. Letteralmente.

Prendiamo, per esempio, lo spettacolo. Che fare? Pensiamoci schiettamente, senza detti e non detti politicamente corretti ma poco efficaci. E siccome fare come si faceva prima è forse più facile, ma probabilmente è pure sbagliato, perché non cominciamo con il chiederci se, in un futuro a medio orizzonte, così come hanno fatto subito moltissimi abbonati di ogni stagione in scena che non hanno voluto rimborsi per gli appuntamenti persi, lo Stato non potrebbe rinunciare ai suoi crediti nei confronti di teatri, enti, istituzioni, festival e associazioni che si sappia (perché si sa, eccome se si sa) operare seriamente? Naturalmente, provvedendo poi a evitare che soprattutto certa "politicuzza" imperversi loro addosso, soffocandoli.

Va da sé, che lo stesso varrebbe per ogni ambito del MiBACT e che non sono pochi soldi. Ma parliamoci chiaro e guardiamo al futuro: soprattutto dopo questo tragico momento, sono somme che lo Stato rischia seriamente di non poter recuperare più. Così facendo, invece, è vero che ne resterebbe certamente impagato, però darebbe a ciascuna di queste realtà non solo un segnale immenso d'incoraggiamento, ma un segnale che, con la "pulizia" bancaria che comporterebbe, avrebbe ripercussioni finanziarie immediate e tali da consentire loro, liberate in questo modo, margini enormemente migliori di movimento per la vita. Il che vuol dire tornare ad essere centri di produzione attivi, con la conseguenza di garanzie più solide per chi da loro è scritturato o vi lavora anche saltuariamente - la situazione di tantissimi addetti e artisti di ogni arte, la cui fama è spesso inversamente proporzionale alla bravura, è oggi una disgrazia nella disgrazia; la conseguenza di risultati maggiori per l'indotto, il turismo in primis - che il virus ha posto a rischio di tracollo; e quindi la conseguenza di un vantaggio tout-court per lo Stato stesso, che proprio rinunciando a questi crediti creerebbe invece al suo erario le condizioni per incassare di più, senza cambiare il proprio "investimento" rispetto a prima e con la medaglia bellissima, civile, sociale e politica, di trasformarsi da creditore inane a lungimirante benefattore.

Come i monaci medievali si presero cura della cultura classica nei loro monasteri, salvandola dalla distruzione e dall'oblio dei secoli che seguirono la rovina dell'Impero Romano d'Occidente, oggi il nostro Stato deve custodire amorevolmente in toto - più di quel che già non stia facendo, e gli va riconosciuto - la cultura sua. Per tramandarla quale l'ha ricevuta. Un teatro, un'orchestra, un centro studi, un coro, una compagnia d'attori, un museo, un ensemble da camera, un balletto, una biblioteca, una legatoria, una scuola di sceneggiatura o di scrittura o di recitazione o fotografica o di disegno o di cucito o coreutica o musicale o di scultura o di cucina, un laboratorio artigianale, una strada, una chiesa, un palazzo e perfino un paesaggio naturale, non possono vivere e forse nemmeno sopravvivere col "distanziamento sociale". E non basta lo streaming. La cultura, sia quella delle attività che quella dei beni e del turismo, ha bisogno di corpi che s'incontrino, si guardino, si parlino, si… coltivino. E in questo senso, il virus è assassino due volte: degli uomini e della bellezza che hanno prodotto e che producono.

Allora, nel Medioevo, il pericolo di perdere lo straordinario che s'era avuto da Atene e Roma durò secoli. Oggi, no. A traghettare viva la cultura italiana oltre la pandemia ci vorrà qualche mese, forse qualche anno. Comunque pochissimo, a confronto dei "secoli bui". Un compito infinitamente più facile. Non affrontarlo non sarebbe solo vile: sarebbe sciocco. Perché in gioco siamo noi. Tutti noi. E tutto il bello e la grandezza che abbiamo dato e sappiamo dare al mondo. Se l'avremo assolto, invece, che storia avrà da raccontare allora ai giovani la nostra scuola, quando finalmente si riabbracceranno ancora in classe!

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Nazzareno Carusi