La furia dei pm: governo indagato
Lo Voi, lo stesso del caso Salvini, ha inviato «avvisi di garanzia» a Meloni, Piantedosi, Nordio, e Mantovano. Il premier: «Non sono ricattabile». Tajani: «Sembra una ripicca delle toghe per la riforma». Il leader leghista parla di vergogna. C’è una parte della magistratura che si sente al di sopra di tutto e persegue scelte che spettano alla politica.
Non mi è chiaro in che cosa consistano il favoreggiamento e il peculato che la Procura di Roma contesta a Giorgia Meloni, ai ministri Piantedosi e Nordio e al sottosegretario Mantovano, per non aver consegnato un cittadino libico ai giudici dell’Aja. Tuttavia, mi è abbastanza evidente che una certa magistratura, forse per effetto della riforma della giustizia in discussione in Parlamento, si sente al di sopra di tutto, anche della ragion di Stato, e dunque legittimata a perseguire scelte che dovrebbero essere di totale competenza della politica. La deriva di una parte dei nostri pubblici ministeri mi era manifesta fin dall’inchiesta che i pm di Palermo avevano aperto contro Matteo Salvini, ritenuto responsabile di aver sequestrato da ministro dell’Interno un centinaio di migranti, per avere negato il diritto di attracco alla nave su cui viaggiavano. Con la complicità dei 5 stelle, che ai tempi del primo governo Conte avevano condiviso le decisioni del leader della Lega, Salvini era stato rinviato a giudizio e solo una recente resipiscenza dei giudici ha evitato una condanna. Ma adesso, in un clima già reso incandescente dalla protesta contro la legge che separa la carriera delle toghe, arriva l’inchiesta a carico di mezzo governo, per la liberazione del capo delle guardie di una prigione libica. Arrestato in Italia dopo aver girovagato per buona parte d’Europa senza essere stato trattenuto, l’aguzzino di Tripoli era stato sbattuto in cella su ordine della Corte penale dell’Aja, ma fin da subito erano risultate palesi non soltanto l’anomalia dell’ordine di carcerazione, ma pure le conseguenze. È inutile nascondersi dietro un dito: il trattenimento del carceriere e la sua consegna ai magistrati che perseguono la violazione dei diritti umani, comportava la reazione libica, con la scarcerazione di decine di migliaia di migranti lasciati liberi di partire per le coste italiane. Eventualità che il governo ha deciso di scongiurare.
E che cosa c’entra la magistratura in tutto questo? Niente. Come niente c’entrò quando Bettino Craxi, statista di cui oggi si rimpiange la scomparsa, fece liberare il capo dei terroristi dell’Achille Lauro. Abu Abbas era responsabile della morte di un turista americano costretto su una sedia a rotelle. Un assassinio spregevole, perché i palestinesi uccisero un uomo inerme. E tuttavia a nessun pm venne in mente di indagare Craxi. Così come a nessun magistrato è passato per la testa di mandare un avviso di garanzia a chi ha permesso la scarcerazione di Cecilia Sala in cambio della liberazione di un ingegnere iraniano accusato di aver procurato il materiale per un attentato. Forse per la giornalista di sinistra, cara a tutto il mondo radical chic, si può chiudere un occhio sul favoreggiamento e sul peculato? O forse, come nel caso di Craxi, essendo palestinesi i sequestratori si poteva fare un’eccezione e rilasciare il terrorista? In ogni Paese esiste la ragion di Stato, ovvero una ragione che compete all’autorità politica e non ai pm. In passato, la Procura di Milano provò a processare i capi dei servizi per l’aiuto dato a un’operazione della Cia sul nostro territorio, ma le richieste furono respinte con l’opposizione del segreto di Stato, costringendo i magistrati a fermare la loro offensiva. Se l’aguzzino libico non è stato consegnato alla Corte penale dell’Aja e l’ingegnere iraniano sospettato di aiutare i terroristi non è stato estradato negli Usa una ragione c’è ed è l’interesse nazionale. Nel primo caso si trattava di evitare migliaia di nuovi sbarchi di immigrati, nel secondo la motivazione aveva il volto di Cecilia Sala.