L'ultimo bluff di Macron
(Ansa)
Politica

L'ultimo bluff di Macron

Ha incaricato il suo primo ministro di «fare il lavoro sporco», ha messo la sinistra nell’angolo e strizza l’occhio alla destra. Così monsieur le Président, da consumato pokerista qual è, si muove sul filo della grave crisi economica d’Oltralpe

Place Bellecour, a Lione, è il più grande spazio pedonale d’Europa. Sulla sua terra rossa, intorno al monumento equestre di Luigi XIV, poco più di un mese fa si riunivano i manifestanti contro il «colpo di mano di Emmanuel Macron». Poi più nulla. Quella piazza, così pronta ad accogliere proteste d’ogni tenore e colore, è silente. Un mutismo dei luoghi della protesta francese che contrasta con lo stress mediatico-parlamentare, con le sinistre riunite nel Nouveau Front Populaire che prima rivendicavano la vittoria elettorale (in seggi, non in voti) e reclamavano il mandato di governo e poi presentavano una mozione per la destituzione di Macron (respinta), seguita da una mozione di sfiducia contro il governo di Michel Barnier, un repubblicano, scelto dal presidente per guidare l’esecutivo in barba ai risultati elettorali. Anche questa mozione non ha trovato una maggioranza. Sinistra rumorosa e piazze per ora silenziose: una dicotomia inedita in Francia, soprattutto in presenza di una finanziaria «lacrime e sangue», con i suoi 40 miliardi di euro di tagli alla spesa e 20 di nuove tasse, una dimensione tutta nuova per l’Esagono.

Le proteste arriveranno: a partire dalla sanità, con un primo sciopero settoriale previsto per questi giorni. Ma intanto, guardandosi intorno, si percepisce più rassegnazione che voglia di rivolta. Basta chiedere a uno qualsiasi dei negozianti intorno a Place Bellecour: «È lì per fare il lavoro sporco, e qualcuno lo deve pur fare» commenta un libraio a proposito del 73enne ex commissario europeo. Anche il gestore di un vicino bistrot parla di una figura un po’ «à la Draghì», chiamato a fare «ce qu’il faut»: quel che è necessario. «È chiaro» dice ancora un avventore, «guardano tutti alle presidenziali del 2027, nessuno voleva bruciarsi per mettere a posto i conti».

Una legge di bilancio come quella presentata negli scorsi giorni da Michel Barnier difficilmente troverà una maggioranza: ma in Francia il governo può arrivare all’approvazione senza voto parlamentare. I partiti possono però in ogni momento proporre una mozione di sfiducia. La prima contestazione viene dalla Corte dei conti, che ritiene «fragili» le previsioni. Basti dire che il governo stima una crescita del Pil pari all’1,1 per cento, apparentemente allineato ai principali enti finanziari. Solo che secondo l’ente di controllo contabile la manovra avrà un effetto recessivo pari allo 0,6 per cento del Pil, sicché la stima reale dell’esecutivo è +1,7. Intanto viene certificato l’ennesimo scostamento del deficit, previsto ora al 6,1 per cento per il 2024, contro il 4 iniziale. E poi viene rimandato al 2029 il rientro al 3 per cento previsto dai Trattati europei. Con un debito destinato a crescere ancora nei prossimi due anni fino al massimo storico del 115 per cento del Pil. Cifre osservate con attenzione dall’Europa e dai mercati: la prima a reagire è stata Fitch, che ha confermato il rating del debito francese ma ha modificato la previsione, che da «stabile» passa a «negativo». L’agenzia precisa tra l’altro di non credere agli obiettivi di rientro del deficit per il 2029. Al momento, però, la finanza internazionale sembra rassicurata dalla credibilità internazionale e dal profilo di Barnier: settimane fa Claudia Panseri, chief investment officer di Ubs per la Francia, diceva a Panorama di aspettarsi un governo più o meno «tecnico», tratteggiandone un profilo perfettamente corrispondente a quello che Macron avrebbe annunciato poco dopo.

Resta il fatto che il primo ministro procede su un filo sottile: alla finanza ha già lasciato intendere scostamenti e rinvii non da poco, e alla piazza ammannisce un pasto fatto di un mix di tagli e tasse. Lo presenta principalmente per la parte che colpisce i redditi più alti (persone fisiche con guadagni superiori ai 500 mila euro annui e imprese con fatturati superiori al miliardo) ma leggendo tra le righe si capisce che quelle «tasse ai ricchi» sono temporanee e «saranno sostituite da misure strutturali» non ancora precisate; che i risparmi ricadranno per dieci miliardi sulla spesa sociale; che verranno tagliate alcune nicchie fiscali per le imprese, alcune delle quali potrebbero essere fondamentali per quelle medie e piccole; che verranno rivisti al ribasso i fondi dei Comuni, e soprattutto i più piccoli saranno costretti a ridurre servizi e personale; e che si tocca per la prima volta un pericoloso tabù: quello dei diritti acquisiti in materia pensionistica.

Niente riduzioni agli assegni di quiescenza, per ora, ma si inizia dal rinvio («temporaneo», «provvisorio», come tante misure divenute definitive) dell’indicizzazione delle pensioni. Avverrà a luglio invece che a gennaio. Sembra un innocuo tecnicismo ma è di fatto un taglio, così come saranno ridotti i diritti dei disoccupati. E la sanità. C’è da aspettarsi che il silenzio della piazza sia destinato a rompersi nei prossimi mesi. Sempre che il governo resti in piedi abbastanza a lungo. La ministra dell’Ambiente Agnès Pannier-Runacher minaccia già le dimissioni se non verrà rimpolpato il suo budget, ma non sono questi i rischi per Barnier, che è pronto a mille rimpasti. Così come lo è Macron: di crisi in crisi, il pokerista all’Eliseo sopravvive e incassa: fortunato a volte, di sicuro astuto, concluderà nel 2027 il secondo e ultimo mandato. Ma a quale prezzo?

C’è un altro silenzio, che a sinistra ritengono ben più inquietante di quello della piazza: è il silenzio dell’estrema destra, che pur avendo preso più voti di tutti sembra inerte. In realtà, bisbiglia le sue richieste. Trova orecchie attente nel governo: «I francesi vogliono più ordine, ordine nelle strade, ordine alle frontiere», diceva nel suo discorso d’investitura il nuovo ministro dell’Interno Bruno Retailleau, esponente dell’ala destra repubblicana. Pochi giorni dopo la portavoce dell’esecutivo, Maude Bregeon, preannunciava una nuova legge sull’immigrazione: «Non ci dev’essere alcun tabù in materia di protezione dei francesi», commentava. La norma prevede in primis l’allungamento dei termini di detenzione in vista dell’espulsione. Era una richiesta specifica di Marine Le Pen e trova ampio consenso dopo l’assassinio di Philippine, la studentessa 19enne il cui corpo veniva ritrovato semi-sepolto il 21 settembre scorso al Bois de Boulogne, alle porte di Parigi. Secondo gli inquirenti a ucciderla è stato Taha O., uscito dal carcere dopo uno stupro e rinchiuso in un centro di detenzione amministrativa in vista dell’espulsione. Dopo due proroghe, in attesa del via libera dal Marocco per il rimpatrio, veniva rilasciato il 3 settembre, benché il magistrato stesso avvertisse del rischio di recidiva. La nuova legge sull’immigrazione arriverà in Parlamento nei primi giorni del nuovo anno, cioè poco dopo l’approvazione della finanziaria: un do ut des per il quale il Rassemblement National non è nemmeno tenuto a un imbarazzante voto a favore: basta non sfiduciare il governo. E la Le Pen aveva detto sin dal primo giorno che «lo valuteremo sui fatti». Sicché, non appoggiando la sfiducia proposta dalla sinistra, l’estrema destra tiene in piedi il governo minoritario di Barnier, ottenendo in cambio la legge sull’immigrazione, un’apertura già promessa alla legge elettorale proporzionale (che rafforzerebbe ulteriormente il RN) e una probabile revisione della riforma delle pensioni: una proposta in questo senso è stata depositata dallo stesso partito, subito dichiarata ammissibile e messa immediatamente in agenda, con un dibattito parlamentare che viene avviato in questi giorni. Cosa che tra l’altro costringe la sinistra a scegliere se votare a favore della proposta dell’estrema destra o respingerla pur essendosi sempre detta d’accordo sul contenuto.

E poi c’è l’informazione: dall’impressionante attacco istituzionale dei mesi scorsi alle testate di destra si è rapidamente passati a un’apertura che ha visto tra l’altro la nomina di un rappresentante dell’estrema destra a relatore sulla stampa nella commissione parlamentare che si occupa dei finanziamenti alla cultura e informazione e un altro in seno al consiglio superiore dell’Afp, l’agenzia di stampa pubblica. Infine, c’è l’assunzione della figliastra di Macron, Tiphaine Auzière, alla corte di Cyril Hanouna, uno dei più demonizzati giornalisti della destra. Una sorta di «matrimonio reale» per certificare la nuova alleanza, dicono a sinistra. Così con l’ennesimo bluff in cui è maestro, Macron mantiene il potere.

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Diego Malcangi