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(Ansa)
Politica

Piana, Commissione Luciani: «Il magistrato fa politica non potrà più indossare la toga».

Per la politologa e sociologa del diritto «La riforma del Csm significa il rilancio della credibilità della magistratura»

All’indomani della riforma del Csm, Daniela Piana, già membro della Commissione Luciani per la riforma dell’ordinamento giudiziario e componente della commissione tecnica dell’Ocse sulla giustizia, evidenzia come «rigore etico, coesione organizzativa, effettivo bilanciamento fra poteri e istituzioni capaci di esercitare un vero controllo imparziale sul rispetto delle regole siano i lati dell’immaginario quadrilatero entro cui va inquadrata la credibilità della magistratura».

Con votazione all’unanimità, il Consiglio dei ministri ha approvato la riforma del Consiglio superiore della magistratura e della disciplina sull’ordinamento giudiziario, terza riforma giurisdizionale dopo il processo civile e quello penale. Tra le tante emergenze, c’era attesa per la possibilità di ritornare a svolgere funzioni giudiziarie per quei magistrati che avessero svolto funzioni politiche (le c.d. “porte girevoli”). Alla fine i magistrati che abbiano ricoperto cariche elettive a qualunque livello territoriale, al termine del proprio mandato, non potranno tornare a svolgere qualsiasi funzione giurisdizionale. M5S, Lega e FI si erano espresse affinchè il divieto non si applicasse a chi avesse ricoperto incarichi politici non elettivi (Ministri, sottosegretari e assessori): dopo l’imput del governo Conte 2, oggi il governo Draghi blocca definitivamente quelle porte girevoli tra magistratura e politica, impedendo al magistrato che dovesse scegliere la via dell’agone politico di ritornare a indossare la toga.

Panorama.it, ha dialogato Daniela Piana che ha evidenziato «la necessità di una rinnovata stagione di fiducia attorno al potere giudiziario, per scrollarsi di dosso le recenti distorsioni».

Daniela Piana è ordinaria di scienza politica presso l’Università di Bologna e componente del Comitato di indirizzo scientifico dell’Ufficio studi del Consiglio di Stato e dell'Advisory Committe on Justice dell’Ocse. Dirige la sezione di ricerca Rule of Law and Digital Citizenship della Luiss di Roma e si occupa di qualità di giustizia a livello internazionale con prospettiva comparata, conducendo ricerche interdisciplinari sia sulla organizzazione degli uffici giudiziari, sia sulla professionalità degli operatori e degli attori della giurisdizione. Coordina la rete Unesco Governance and Citizenship in the Digital Age ed ha fatto parte della Commissione Luciani per la riforma dell’ordinamento giudiziario: studi approfonditi sul Csm e il recente Uguale per tutti? La giustizia e il cittadino in Italia (Il Mulino, Bologna), ne fanno un’attenta studiosa dei rapporti tra giustizia e cittadini.

Il Consiglio dei ministri ha approvato la riforma del Consiglio superiore della magistratura…

«L’approvazione della riforma ha sostanzialmente raggiunto un duplice obiettivo. In primo luogo ha fatto registrare un’univoca convergenza con la presidenza della Repubblica che da tempo si era espressa sulla necessità e l’urgenza di risolvere la questione del Csm, che intanto si avvia a chiudere la sua consiliatura e che, quindi, necessitava di nuove regole per la prossima consiliatura».

E il secondo obiettivo?

«Si rifà alla scelta compiuta dalla stessa Ministra Cartabia che vi ha investito tutto il suo autorevole peso: mi riferisco alla tempistica della riforma stessa, portata a conclusione in tempi record. Prima della estate, con la nuova elezione del Csm, i risultati saranno tangibili».

Si tratta della sfumatura essenziale…

«E direi assolutamente conducente ai fini del nostro ragionamento: in pratica la riforma viene correttamente impostata e percepita dalla collettività come traguardo di politica istituzionale e non solo settoriale, trattandosi di una riforma di sistema. Non si tratta, cioè, di manutenzione orientata a risolvere qualche disfunzione, ma di una visione di come debba funzionare una sorta di quadrilatero di base su cui la giustizia italiana dovrebbe poggiarsi. Si tratta di un novum, a meno che non si pensi ai Padri costituenti della Repubblica».

La comunicazione politica si è imbattuta nel termine “porte girevoli”.

«E’ il passaggio fondamentale della riforma, anche dal punto di visto comunicativo, e l’utilizzo di questa metafora va semplificata al cittadino al quale è nostro dovere rivolgerci, essendo titolare di un fondamentale diritto, in ambito giurisdizionale, quale la certezza che qualsiasi cosa possa accadergli sul versante della giustizia, quel giudice che sarà chiamato a giudicarlo non dovrà subire nessun tipo di influenza, né essere sottoposto a nessuna forma di parzialità».

La riforma, dunque, tocca il cittadino direttamente…

«Un cittadino parte di un processo deve essere rassicurato che il ragionamento di chi lo giudicherà – qualsiasi sia l’esito della sentenza – sarà basato su ragioni di diritto, e comunque orientato sempre da una postura terza. Come un occhio che guarda le parti dall’alto della montagna, non dal caos rumoroso e poco discernibile di un groviglio di strade».

Forma e sostanza giuridica.

«Noi dobbiamo creare le condizioni perché il cittadino possa fidarsi che quando è parte soccombente in un processo, trattandosi dell’esito dovuto all’esercizio di un giusto potere che non è mai arbitrario. La qualità del metodo di nomina dei magistrati che svolgono funzioni apicali diventa in tal senso importantissima, e la riforma si occupa di questo aspetto e pone forti condizioni di garanzia».

Garanzie di indipendenza e di imparzialità già previste dalla Costituzione…

«Certo, ma dovremmo finalmente ragionare come se queste garanzie possano essere date per scontate, e neanche lontanamente essere messe in discussione. Ora il meccanismo delle “porte girevoli”, finito nella vulgata di questi giorni in perfetto stile da comunicazione politica e giudiziaria, nasce nel nostro sistema giudiziario all’indomani di Tangentopoli, allorquando si verificarono una lunghissima serie di episodi di cronaca giudiziaria che marcarono il nostro stesso sistema politico, all’esatto confine tra emergenze giudiziarie e crisi della partitocrazia».

Tra politica e magistratura, la partita è sempre aperta.

«I partiti hanno perso la loro credibilità, la magistratura ha acquisito molto consenso e il sistema democratico italiano non aveva i meccanismi per impedire che i magistrati entrassero in politica e poi tornassero alla magistratura senza periodi di necessario raffreddamento. Insomma, la permeabilità fra funzione giudiziaria e funzione rappresentativa-elettorale – dal sindaco al parlamentare – è un esempio di malattia del nostro quadrilatero».

Professoressa, lei ha toccato la “quaestio facti”…

«Si tratta di un aspetto estremamente problematico perché costituisce la terra di confine tra il sistema giudiziario, caratterizzato dal principio della terzietà e quello partitico, elettorale e rappresentativo che della non-terzietà si ammanta naturalmente. D’altronde abbiamo costruito il sistema della democrazia rappresentativa in questi termini».

Non ci dica che le “porte girevoli” siano l’unico problema della giustizia…

«I mali si identificano se si guarda la realtà con gli occhiali giusti, e la parola politica non significa partito politico, significa esercizio del potere. Qualsiasi comportamento che possa fare passare la magistratura dalla posizione terza dell’occhio che guarda dall’alto della montagna alla posizione del rumore nel mezzo di un groviglio di strade, nuoce non solo alla fiducia del cittadino, ma anche alla magistratura stessa».

In sintesi, allora?

«I magistrati che abbiano ricoperto cariche elettive a qualunque livello territoriale, al termine del proprio mandato, non potranno tornare a svolgere qualsiasi funzione giurisdizionale. Era il senso della relazione tecnica sottoposta all’attenzione della ministra Cartabia dalla Commissione Luciani: invece di creare un meccanismo punitivo, si è preferito un meccanismo garantista che proteggesse competenza e professionalità del magistrato. Alla fine garantendo l’aspetto che più interessa al cittadino, la terzietà del magistrato, inquirente e giudicante».

Fu l’Assemblea costituente che decise di istituire il Consiglio superiore della magistratura.

«Come soluzione concreta trovata dai padri costituenti al fine di evitare che il potere esecutivo potesse avere un impatto erosivo e distruttivo nei confronti dei diritti dei cittadini. E poichè questi ultimi trovano tutela attraverso la garanzia dell’imparzialità di un giudice terzo rispetto agli interessi delle parti, venne deciso di creare un meccanismo di autogoverno al quale affidare nomina, carriera, disciplina, terzietà compresa, appunto».

I padri costituenti avevano avuto lo sguardo lungo…

«In questo senso dobbiamo interpretare la riforma del Csm di questi giorni, altrimenti non capiremo mai la sua importanza nel disegno costituzionale e nella vita stessa del sistema giudiziario italiano. La riforma che stiamo commentando è perfettamente connaturata alla capacità evolutiva del nostro assetto ordinamentale, cioè costituzionale».

Quando nell’estate del 2019 scoppiò il caso-Palamara, il Csm sembrò rispettare poco quei padri costituenti…

«Partiamo da un punto fermo: chi studia il potere come fenomeno istituzionale ha uno sguardo molto realista rispetto a ciò che accade dentro le istituzioni e tra le istituzioni: l’utilizzo del potere decisionale è nella natura anche del Csm, organo di rango costituzionale cui questo potere è assegnato».

Torniamo al vecchio rapporto tra magistratura e politica…

«Perché anche il Csm possiede una natura politica, non partitica, ma di esercizio di un potere. Questo aspetto è assolutamente preliminare ad ogni tipo di valutazione e di analisi sull’organo di autogoverno dei magistrati come su qualunque altro organo istituzionale».

Il Csm come specchio dei tempi?

«Un Csm strutturato come espressione del potere era tipico di forme di aggregazione del consenso come nella Prima Repubblica, quando il consenso stesso era assicurato dai partiti e dai gruppi di interesse che si muovevano anche all’interno della magistratura. Oggi stiamo assistendo ad una vera e propria destrutturazione di sistema, sia dal lato della politica e che da quella dei corpi terzi, magistratura su tutti».

Occorre valorizzare lavoro e senso etico dei magistrati!

«Soprattutto tutelare quei tanti magistrati che non praticano metodi distorsivi dell’etica giudiziaria e che meritano di essere assolutamente valorizzati. Mi perdoni l’insistenza, ma l’immagine del nostro quadrilatero è molto calzante. Nessuna regola formale senza una postura etica e un forte senso della missione istituzionale potrà mai da sola risolvere i problemi. Per questo noi nella Commissione Luciani abbiamo fortemente sottolineato l’importanza - insieme con la riforma del Csm - del ruolo della formazione e della deontologia.».

La visione comparativa potrà esserci di aiuto…

«La comparazione deve essere utilizzata per apprendere, imparare e mettere in pratica, confrontandoci con tutti quei paesi che proprio di recente hanno adottato un modello di autogoverno della magistratura simile al nostro. Bulgaria, Romania, Albania, ma anche Polonia e Ungheria, dimostrano come un ordinamento giudiziario senza un sistema politico funzionante, potrà veramente poco».

Di cosa abbiamo realmente bisogno in Italia?

«Per poter contare su una funzione giudiziaria di qualità abbiamo bisogno di un Parlamento e di un Esecutivo di assoluta qualità. La partita della giustizia italiana non potrà essere giocata senza il minimo comune denominatore della qualità. La democrazia funziona grazie alla combinazione di più elementi favorevoli, non giocando su tavoli separati».

Ce lo spiega quel tanto citato quadrilatero?

«Ai lettori affido il mio quadrilatero del buon funzionamento istituzionale: rigore della persona, coesione organizzativa, qualità del meccanismo del bilanciamento dei poteri e terzietà. Se anche uno solo di questi pilastri viene a mancare cade l’architettura della qualità democratica, che è poi quella che vuole e che deve essere garantita al cittadino».

Panorama.it Egidio Lorito, 14/02/2022

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