Era l’8 ottobre 2019. Un esultante Luigi Di Maio capeggiava la festa pentastellata per una vittoria, a dire dei grillini, senza precedenti: finalmente il Parlamento approvava il fatidico taglio del numero degli onorevoli tra Camera e Senato. «È una vittoria del popolo, una riforma storica che ricorderanno tutti, i nostri figli, i nostri nipoti», diceva l’allora leader del Movimento Cinque stelle, al fianco dell’ideatore della legge costituzionale, che al tempo era il ministro per i Rapporti col Parlamento Riccardo Fraccaro. Peccato che né noi, né i nostri figli, né i nostri nipoti possiamo ricordare questa «riforma storica» dato che a conti fatti il taglio dei parlamentari si è rivelato l’ennesimo bluff della «casta».Per capire di cosa stiamo parlando bisogna fare un passo indietro. Nella passata legislatura i Cinque stelle, allora al governo (prima con la Lega, poi col Pd), hanno fin da subito dichiarato pubblicamente che avrebbero ridotto di peso il numero degli onorevoli. D’altronde esattamente questo ci si sarebbe aspettato da chi ha sempre detto di voler aprire il Parlamento come una scatola di tonno. E così è stato. Dopo quattro passaggi in aula, la proposta costituzionale è diventata legge, tanto che alle ultime elezioni il popolo italiano ha eletto 400 deputati (e non 630) e 200 senatori (e non 315).
Insomma, un taglio di ben 345 unità che, si diceva allora, avrebbe garantito un bel risparmio per le casse dello Stato. Un’«economia» che invece, a consultare i bilanci di Camera e Senato, non si vede granché. Anzi, non si vede affatto. Perché, nonostante la riduzione del numero degli eletti, i finanziamenti elargiti ai gruppi parlamentari sono rimasti identici. Parliamo, in estrema sintesi, di quei fondi elargiti affinché ciascuna formazione politica, e dunque ogni singolo onorevole, possa svolgere la sua attività politica e legislativa. Va da sé, però, che se l’entità del gruppo si riduce dovrebbero ridursi anche i soldi di cui ognuno di questi dispone. E invece no. Alla Camera, presieduta dal leghista Lorenzo Fontana, lo stanziamento per il 2024 è ammontato a 30.870.000 euro: esattamente come nel 2022, nel 2021, nel 2020. Nulla è cambiato. Ma ecco il punto. Se dividiamo questa somma per 400, ovvero per quanti sono oggi i deputati, ecco che parliamo di 77.175 euro a testa. L’anno, ovviamente. Cioè 28.175 euro in più rispetto ai 49 mila pro capite della Camera con 630 seggi. Se vogliamo porla in altri termini numerici, l’aumento è del 57,5 per cento.
Si dirà: forse qualcosa muterà nei prossimi anni. Nient’affatto. Lo stanziamento resta di 30,8 milioni anche per l’anno in corso e pure per il 2026.E al Senato, oggi presieduto da Ignazio La Russa? Se possibile, va ancora peggio (o meglio, a seconda dei punti di vista). I fondi stanziati sono pari a 22.120.000 euro. Esattamente la cifra stanziata negli anni passati quando a sedere a Palazzo Madama erano in 320 (315 eletti più i cinque senatori a vita) ed esattamente la cifra che verosimilmente sarà stanziata sia per il 2025, sia per il 2026. Ebbene, se prima parlavamo di un finanziamento di circa 69.125 euro pro capite all’anno, oggi la cifra sale a 107.902 euro. Un bel balzo in avanti, non c’è che dire.
D’altronde non c’è da sorprendersi. Se consideriamo la «dotazione annuale» di cui godono i due rami del Parlamento – e cioè i soldi che mette a disposizione il Tesoro per Camera e Senato – ci rendiamo conto che il taglio è come se non esistesse affatto: gli stanziamenti sono esattamente gli stessi di prima, quando Montecitorio e Palazzo Madama erano popolati da un totale di 945 eletti. Parliamo, ieri come oggi, complessivamente di poco meno di un miliardo e mezzo: 943.960.000 euro alla Camera, 505.360.500 euro al Senato. E, ovviamente, anche in questo caso ci si può sbizzarrire con i numeri. Oggi il peso sulle casse pubbliche di ciascun seggio, tutto compreso, è di 2.359.900 euro: 861.559 euro in più. Mentre al Senato il costo è di 2.465.173 euro: 885.922 euro in più. Insomma, una rilevantissima dotazione che si aggiunge, peraltro, a indennità e rimborsi vari. Eppure qualcuno ricorderà nitidamente cosa disse l’onorevole Piero Fassino, intervenendo in Aula proprio durante l’approvazione del bilancio interno della Camera dei deputati. Era il 2 agosto 2013: «L’indennità che ciascun deputato percepisce ogni mese dalla Camera è di 4.718 euro al mese. Si tratta di una buona indennità, ma non è certamente uno stipendio d’oro». Per carità: in fatto di denaro tutto è relativo.
Ma è altrettanto vero che non ci sono soltanto i cinquemila euro netti al mese. Perché, tanto per fare qualche esempio, bisogna aggiungere la diaria (3.503,11 euro), il rimborso spese per l’esercizio del mandato (3.690 euro), le spese di viaggio (si legge sul sito della Camera: «Qualora la distanza da percorrere sia pari o inferiore a 100 chilometri, il rimborso ammonta a 3.323,70 euro trimestrali; nel caso sia superiore, l’importo è pari a 3.995,10 euro a trimestre») e quelle telefoniche (è forfettario e si può arrivare a 3.098,74 annui). Ecco allora che dai cinquemila euro netti si scavalcano agilmente i diecimila, a seconda dei casi. Ma ecco, infine, la domanda delle domande: tutti questi soldi serviranno concretamente? Aver «snellito» il Parlamento ha portato risultati concreti nell’azione legislativa? Il dubbio è piuttosto fondato e trova risposte – ahinoi, negative – in una relazione di OpenPolis di qualche tempo fa. Dallo studio della fondazione emerge che le prestazioni dei nostri onorevoli non sono affatto migliorate. Tutt’altro.
Poiché i parlamentari coprono più posti nelle commissioni, spesso dovrebbero farlo in contemporanea. Qualche esempio, anche in questo caso, per intenderci. Nel 2019 – dunque prima della sforbiciata al numero dei parlamentari – si sono tenute 2.472 sedute formali delle commissioni permanenti per un totale di 1.243 ore; nel 2023 ci si è fermati a 2.187 sedute per 955 ore.
Non va certamente meglio per quel che riguarda il tempo trascorso in Aula. A Montecitorio, nel 2019, gli allora 630 deputati hanno trascorso 834 ore e 7 minuti. Mica male. Nel 2022 (ultimo dato a disposizione in questo caso) ci si è fermati a 524 ore e 28 minuti. D’altronde il motivo è chiaro: i nostri eletti saranno pure «onorevoli», ma non hanno il dono dell’ubiquità. E tutto questo, ovviamente, non ha un valore soltanto formale. Perché inevitabilmente comporta ricadute sulla produzione legislativa. Prendiamo gli emendamenti che ogni eletto dovrebbe presentare quando si discute un disegno di legge: nel 2020 sono stati addirittura 23.730. Dopo tre anni sono drasticamente scesi a 8.273. Una produzione, dunque, che si è nei fatti dimezzata. E il calo è ancora più leggibile se si considera quanti di questi emendamenti sono stati approvati: 95. Una miseria. Mica come i finanziamenti dei gruppi parlamentari. Quelli no, una miseria non lo sono affatto.