Palombella (Uilm): «Lo sciopero generale è necessario»
È il giorno dello sciopero generale, che mancava da 7 anni, contro una manovra ricca di punti
E’ arrivato il grande giorno dello sciopero generale indetto da Cgil e Uil. Non accadeva dal 2014. Sindacati e lavoratori manifestano contro la legge di bilancio del Governo Draghi e della grande coalizione che lo sostiene. Non hanno voluto indietreggiare neppure difronte alla spaccatura del fronte sindacale della Cisl, alle richieste del Pd e alla convocazione di Draghi. Ne abbiamo parlato con Rocco Palombella, segretario nazionale dei metalmeccanici della Uil. Federazione che lavorando in Ilva da quando ha 18 anni, guida con forza e pragmatismo dal 2009.
Com’è lo sciopero generale visto dai metalmeccanici?
«È stata una decisione condivisa e necessaria. Negli ultimi anni Cgil Cisl Uil hanno programmato diverse iniziative e sit in di protesta sempre di sabato per non arrecare danni all’economia e per non far perdere il salario, già misero, ai lavoratori. Questo non ha prodotto i risultati significativi che speravamo. Gli unici obiettivi centrati sono stati quelli ottenuti durante la pandemia con la realizzazione di protocolli per salvaguardare la salute e la sicurezza dei lavoratori e dei cittadini, con il blocco dei licenziamenti e l’estensione degli ammortizzatori sociali per evitare drammatiche conseguenze. A parte quella fase, le proposte della piattaforma di Cgil Cisl Uil non sono state mai discusse con il Governo».
L’ultimo sciopero generale è del 2014, cosa ha combinato di cosi grave Draghi rispetto ai predecessori per riportarvi alla mobilitazione generale?
«Il Governo Draghi si è insediato a fronte di una emergenza pandemica, politica, economica e finanziaria. Allo stesso tempo però Draghi ha una maggioranza che comprende la quasi totalità del Parlamento e il Paese ha la possibilità di utilizzare le ingenti risorse legate al Pnrr, con una ripresa, seppur disomogenea e asimmetrica, che ha raggiunto livelli importanti, giungendo a una crescita di oltre il 6% del Pil nel 2021 e una prospettiva positiva per gli anni successivi. Date queste condizioni ci aspettavamo risposte concrete riguardanti il lavoro, le crisi industriali, una discussione aperta sulla riforma delle pensioni, importanti risorse per abbattere il cuneo fiscale e gli altri temi della piattaforma di Cgil Cisl Uil ma non sono stati presi minimamente in considerazione. Si sono svolti diversi incontri ma nessun risultato si è potuto ottenere poiché una volta raggiunto un accordo all’interno della maggioranza, questo era blindato, senza nessuna possibilità di modifica».
Non sono troppo fumose e pretestuose le richieste dei confederali rispetto alle rivendicazioni di categoria?
«La piattaforma di Cgil Cisl Uil è molto chiara su tutti i temi, in particolare per quanto riguarda gli aspetti industriali. Esistono un’emergenza rappresentata dal lavoro e una crisi legata non solo alle delocalizzazioni ma anche dal destino di intere filiere produttive, come nell’auto, che rende urgente una discussione tra tutte le categorie per quanto riguarda la transizione ecologica. Solamente l’annuncio da parte della Commissione europea del termine del 2035 per l’immatricolazione di auto con motori benzina e diesel ha prodotto già ondata di chiusure di stabilimenti e centinaia di licenziamenti. Una decisione che è stata condivisa qualche giorno fa anche dal Comitato interministeriale tra Mise, Ministero infrastrutture e Mite senza aprire nessuna discussione con le organizzazioni sindacali e datoriali. Un atto grave che rischia di far perdere 60 mila posti di lavoro nella filiera della componentistica e la chiusura di centinaia di aziende. Senza una reale programmazione si rischiano danni irreversibili e senza precedenti».
Proprio quest’anno avete raggiunto l’importante obiettivo della riforma del contratto dei metalmeccanici, cos’altro chiede la vostra categoria?
«Nonostante la crisi pandemica e le difficoltà del sistema industriale siamo riusciti a rinnovare uno dei migliori contratti della storia dei metalmeccanici, come quello di Federmeccanica che interessa oltre 1,6 milioni di lavoratori, aumentando i salari, le tutele e rafforzando temi fondamentali come la sicurezza e la formazione. La situazione drammatica che vive la nostra categoria è rappresentata dalle decine di crisi industriali che ormai sono aperte da anni al Mise e che, per la stragrande maggioranza, non ha avuto una conclusione positiva. Ci sono state chiusure, delocalizzazioni o ridimensionamenti. La ripresa del nostro Paese passa inesorabilmente dalla risoluzione delle crisi industriali».
Quanti i sono i tavoli di crisi che lei sta seguendo?
«Stiamo seguendo tutti quelli riguardo il settore metalmeccanico come l’ex Ilva, ex Embraco, ex Whirlpool, Acc, Gkn, Jsw di Piombino, Gianetti Ruote, Speedline, Honeywell, Riello, Caterpillar, Bekaert, Jabil, Blutec di Termini Imerese, ex Alcoa di Portovesme e tante altre. Questo lungo elenco di aziende ha dietro la vita e il futuro di migliaia di lavoratori e famiglie, intere comunità e la totale mancanza annosa di soluzioni impoverisce non solo economicamente questi territori. Occorrono soluzioni definitive e concrete per riportare la dignità del lavoro».
Il sottosegretario Todde dice che si sono ridotti da 140 a 85, quanti si sono semplicemente chiusi come Whirlpool con il licenziamento?
«La Sottosegretaria Todde sa benissimo che quelle pochissime aziende dove si è trovato un accordo si possono contare sulle dita di una mano e comunque una volta trovata la soluzione, dopo pochi mesi si sono riaperte perché si era raggiunto un accordo precario che ha retto pochi mesi, come nei casi di Jabil oppure la soluzione, poi messa in discussione dopo il cambio di maggioranza, di Italcomp con l’accorpamento di Embraco e Acc. Parlare di vittoria non credo sia opportuno».
Il ministro orlando dice che non condivide lo sciopero perché nella manovra è stata introdotto riforma degli ammortizzatori sociali, è un successo per voi?
«Siamo convinti dell’esatto contrario rispetto a quello che pensa il ministro del Lavoro Orlando sullo sciopero. Per quanto riguarda la riforma degli ammortizzatori sociali si tratta di un intervento minimo, una semplice modifica che tiene in considerazione l’emergenza dilagante in cui versa il sistema delle imprese. Occorre, invece, una vera riforma degli ammortizzatori sociali ma soprattutto è fondamentale rafforzare le politiche attive per far rimanere legato il lavoratore al mondo del lavoro».
Voi considerate la cassa integrazione occupazione come fa il ministro del lavoro?
«Assolutamente no. La cassa integrazione è uno strumento indispensabile ma deve essere utilizzato solo come strumento ponte per far transitare i lavoratori che hanno perso il lavoro verso una nuova occupazione. Non possiamo utilizzare questo strumento a vita, non è accettabile che ci siano lavoratori che da oltre dieci anni si trovano in questa situazione. Oltre a creare una difficoltà economica ai lavoratori e un disagio sociale e familiare, si allontana il lavoratore dal mondo del lavoro. Deve essere uno strumento gestito in via emergenziale e non come sostitutivo dell’occupazione. La cassa integrazione non può essere un obiettivo ma uno strumento utilizzato come extrema ratio».
È vero che però con Conte non avete scioperato anche se non vi convocava affatto?
«Il Governo Conte I si è insediato in una fase molto critica dal punto di vista industriale. La maggioranza aveva forze politiche avevano vinto le elezioni ma molto diverse tra loro, variegata ma ciononostante c’è stata un’attenzione sulle crisi industriali, come testimonia l’accordo Ilva del 6 settembre 2018. Allo stesso tempo sulla vertenza Whirlpool c’è stato una totale e ingiustificabile mancanza da parte del Governo. Un periodo di poche luci e molte ombre. Rispetto al Conte II, dopo pochi mesi ha dovuto affrontare l’emergenza sanitaria e sociale legata alla pandemia, che ha visto un ruolo importante delle organizzazioni sindacali nella realizzazione dei protocolli sicurezza, blocco licenziamenti e l’estensione degli ammortizzatori sociali. La pandemia ha messo in secondo piano le crisi industriali. Nonostante questo non abbiamo mai smesso di chiedere interventi e soluzioni per le crisi che si aprivano o riaprivano come nel caso dell’ex Ilva».
Cosa ne pensa della bozza del decreto anti delocalizzazioni, è davvero il trasferimento delle aziende all’estero che mette in crisi i lavoratori italiani?
«Purtroppo da mesi si parla di questo decreto anti delocalizzazioni, ad ora non sappiamo cosa prevede realmente il testo. Sull’onda dei casi di Gkn e Gianetti Ruote sembrava che venisse presentato subito questo decreto che invece sembra sia perso tra le stanze del Ministero dello Sviluppo economico e quello del Lavoro, con modifiche, ritocchi senza mai giungere a un testo conclusivo.
La questione delle delocalizzazioni è una materia molto delicata e controversa e un decreto rischia di essere inefficace. Occorre che il Governo apra una discussione sulle reali motivazioni delle delocalizzazioni, anziché fare una caccia alle streghe e seguire le emergenze, esaminando le cause e risolverle come l’alto costo del lavoro, dell’energia, i tempi della burocrazia, l’alta tassazione, il gap infrastrutturale e tanto altro, accanto a condizioni esplicite sulla responsabilità sociale che deve avere una multinazionale o un fondo finanziario. Tutto questo deve essere preceduto o accompagnato da regole comuni a livello europeo per evitare il far west come sul sistema fiscale, orari di lavoro, sui contratti e rendere realmente libero il mercato, mettendo in concorrenza le capacità e non facendo profitto sulle spalle dei lavoratori, riducendo gli stipendi. Le professionalità dei lavoratori italiani non sono seconde a nessuno».
State scioperando anche in aziende pubbliche come Leonardo e Ilva, neanche lo stato riesce a risolvere le crisi industriali?
«Purtroppo si. Per quanto riguarda Leonardo, per la prima volta dalla nascita di Finmeccanica nel lontano 1948, si è scioperato in tutti gli stabilimenti del Gruppo che occupa oltre 30 mila dipendenti in Italia. Da anni sono in atto politiche di vendita, dalla messa sul mercato di gioielli come Ansaldo Breda, Ansaldo Energia e Sts, ad oggi con Oto Melara e Wass. Per quanto riguarda la Divisione Aerostrutture, che occupa 4.500 lavoratori nel Mezzogiorno, tra Puglia e Campania, dal 3 gennaio l’azienda avvierà la cig per 13 settimane per oltre 3.400 di loro. Se a questi si aggiungono solo gli oltre 3 mila lavoratori dell’ex Ilva, per non contare le altre crisi aperte, si arriverebbe a oltre 7 mila lavoratori coinvolti. Questo rappresenta il fallimento totale del Governo e delle aziende, con uno sperpero di risorse senza precedenti. L’unica soluzione che viene proposta è quella di prendere tempo utilizzando la cassa integrazione, senza nessuna strategia di lungo periodo. Questo è inaccettabile e per questo il 6 dicembre abbiamo indetto, con la Fiom, lo sciopero generale con una manifestazione nazionale sotto la sede di Leonardo a Roma».
Fa bene alle imprese in crisi il ricorso sempre più frequente alle amministrazioni straordinarie o Invitalia?
«Invitalia viene utilizzata da anni come la panacea di tutti i mali. Ha raggiunto un numero di dipendenti tra le prime aziende in Italia, tra diretti e partecipazioni societarie. Per ogni crisi irrisolta si tira fuori il nome di Invitalia ma, al momento, non c’è stato nessun risultato concreto per i lavoratori e il futuro produttivo delle aziende interessate. Senza piani industriali concreti e di lungo periodo ma solo con soluzioni tampone non si va da nessuna parte.
Siete soddisfatti della nuova ilva? Era necessario un nuovo piano industriale solo per far sedere al tavolo i politici? Cosa cambia rispetto al vecchio firmato solo un anno fa da Gualteri e Patuanelli? Perché ci sono 3500 persone in cig se la domanda di acciaio cresce? Afo 5 riparte o si aspettano i forni elettrici e si dice addio al ciclo integrale?
«Hanno annunciato a reti unificate che ci sarà la decarbonizzazione completa entro i prossimi 10 anni, ma subito dopo hanno posto problemi legati alla insufficienza di energia elettrica e di gas e alla possibilità di utilizzare l’idrogeno come alternativa senza dare nessuna spiegazione approfondita. Hanno annunciato 4,7 miliardi di euro di investimento però non ci hanno spiegato che fine hanno fatto i 4 miliardi previsti dal piano del 2018. Non c’è stato consegnato nessun documento, non è stata proiettata nemmeno una slide.
Più che un incontro per spiegare il piano hanno convocato decine di rappresentanti politici locali, della Puglia e della Liguria, mentre mancavano i rappresentanti sindacali degli stabilimenti del Gruppo. Il vecchio piano industriale prevedeva la risalita produttiva entro il 2023, l’azzeramento della cassa integrazione, il rientro dei 1.800 in Ilva As e zero esuberi. Ora il progetto che ci hanno annunciato si svilupperà in dieci anni, con 3.500 lavoratori in cig che si aggiungono ai 1.800 di Ilva As. Continuiamo a importare acciaio, circa 6 milioni di tonnellate lo scorso anno che equivalgono alla produzione annua dell’ex Ilva. Durante l’incontro è stato annunciato che nel 2021 ci sarà una produzione di 5 milioni mentre in realtà si raggiungeranno a malapena i 4. Si è fermato l’Afo 4 che rimarrà così fino alla fine di gennaio, l’acciaieria 2 va avanti con un convertitore anziché tre mentre l’acciaieria 1 è stata fermata e tanti altri impianti sono fermi con centinaia di lavoratori in cig. Non ci hanno comunicato quando inizierà il rifacimento dell’Afo 5, sapendo che ci vorranno almeno due anni dall’inizio dei lavori per la messa in esercizio. Hanno detto che installeranno due forni elettrici e quindi si marcerebbe con Afo 5 che li affiancherebbe ma anche in questo caso senza nessuna data o indicazione precisa. Non ci hanno detto se e quando ci sarà la costruzione dell’impianto di pre ridotto. In sostanza non ci è stato detto nulla di concreto, solamente generiche ipotesi».
Rispetto alle altre categorie i metalmeccanici sono quelli che più che ammortizzatori e pensioni e agevolazioni chiedono lavoro, non pensate che annacquare le richieste possa inficiare gli obiettivi del mondo del lavoro? Se è vero che la busta paga dei metalmeccanici aumenta, perché scioperare?
«Le richieste di Cgil Cisl Uil sono coerenti con quelle che portiamo avanti da sempre. Senza lavoro non riparte il Paese, non si crea sviluppo e non si ottiene una copertura degli ammortizzatori sociali per le categorie sprovviste. Rivendicare il lavoro rafforza la piattaforma confederale. I lavoratori metalmeccanici sono quelli che, purtroppo, hanno i salari più bassi rispetto alle altre categorie industriali. Con il rinnovo del contratto nel febbraio scorso abbiamo aumentato i salari ma ancora scontiamo un importante differenziale con i lavoratori di altri settori. Questa, a differenza di quello che si va dicendo, è la realtà ed è un motivo in più per scioperare».
Anche in molte vertenze specifiche la fim si dissocia da Fiom e Uilm, vogliono a tutti i costi difendere questo governo?
«Sono veramente sconcertato dalla posizione che ha assunto la Fim nell’ultimo periodo. Posso capire che esistono delle regole all’interno delle confederazioni ma purtroppo registriamo che anche in vertenze importanti di categoria, come in Leonardo, ultima in ordine di tempo, ci sono posizioni ingiustificabili che rischiano di dividere i lavoratori, isolando quelli che si trovano in maggiore difficoltà. Al contrario crediamo che lo sciopero dell’intero Gruppo sia stata una condizione imprescindibile per una presa di posizione che parte da quelli che si trovano nelle condizione migliori, per far sentire la vicinanza e l’essere parte di un’unica comunità inscindibile.
Siamo contrari a una concezione sempre positiva, in ogni caso, nel vedere il bicchiere mezzo pieno al di là del merito reale. Come accaduto nella situazione dell’ex Ilva, a fronte di una totale mancanza di concretezza in termini di progetti industriali e occupazionali. C’è una Fim che stento a riconoscere: abbiamo firmato e condiviso una fase delicata nei rapporti nella categoria, con il rinnovo del Ccnl nel 2012 e la situazione Fiat. Da qualche tempo abbiamo recuperato un rapporto con la Fiom mentre la Fim non si capisce che direzione voglia prendere».
I metalmeccanici sono stati tra quelli che più hanno lavorato in pandemia, non crede che le proteste delle altre categorie, dalla funzione pubblica ai pensionati, su green pass e sussidi, ricordino il sazio che non crede al digiuno?
«I lavoratori metalmeccanici hanno una storia memorabile, fatta di solidarietà e anche di conquiste innovative dal punto di vista dei diritti, normative e contrattuali. Riteniamo di aver fatto bene a realizzare accordi che hanno assicurato il funzionamento dei servizi essenziali durante la fase acuta della pandemia. Esistono sicuramente delle priorità diverse tra il sistema pubblico e quello privato ma riteniamo che lo sciopero del 16 unifichi le lotte di questi due mondi, unifichi il mondo del lavoro. La Fim perde una grandissima opportunità di partecipare a uno sciopero che rimarrà nella mente di migliaia e migliaia di lavoratori».
Lei che guida i metalmeccanici, Cosa ne pensa dell’aumento a 8 miliardi dei fondi per il reddito di cittadinanza?
«Penso che nel nostro Paese ci sia un reale problema che è rappresentato dall’aumento della povertà e delle disuguaglianze, acuito dalla pandemia. Il reddito di cittadinanza può essere uno strumento, se utilizzato nella giusta maniera, per diminuire le disparità sociali.
Purtroppo ci sono stati pochi controlli e gli abusi scoperti hanno mandato un messaggio sbagliato, ovvero incentivando il non lavoro perché in alcuni casi il reddito di cittadinanza superava le pensioni minime. Al fianco dell’assistenza è fondamentale la parte delle politiche attive.
In definitiva penso che il reddito di cittadinanza sia uno strumento valido che deve essere dedicato esclusivamente a chi si trova realmente in condizioni di disagio sociale ed economico.
La nuova Ilva non esiste neanche sulla carta. Nell’incontro del 13 dicembre prima ci hanno annunciato un nuovo “piano industriale” e subito dopo lo hanno ribattezzato “progetto”».
L’Italia continua ad essere, purtroppo non sappiamo fino a quando, un Paese con importanti insediamenti industriali. Però se non si affrontano realmente i nodi di settori strategici come l’auto, la siderurgia, le telecomunicazioni, la cantieristica e l’elettrodomestico si rischia la de industrializzazione totale dell’Italia. Una situazione che non ci auguriamo perché sarebbe il peggior incubo per il futuro del nostro Paese.