Non chiamateli lobbisti
La Rubrica - The Lob
Improvviso come una valanga è piombato un nuovo scandalo legato al malaffare all’interno delle istituzioni. Lo hanno chiamato “Qatar Gate” o peggio ancora “The Italian Job” - il colpo all’italiana - perché nelle vicende di corruzione che fanno tremare la Commissione Europea e l’intero Parlamento alcuni dei principali protagonisti sono purtroppo nostri connazionali.
Ma aldilà della nazionalità e delle istituzioni coinvolte, quello su cui vorrei porre l’attenzione in questa vicenda di cui al momento pare sia emersa solo la punta dell’iceberg di un ampio sistema, è che ancora una volta semplicisticamente i media e l’opinione pubblica hanno pensato di utilizzare il termine lobbista per fotografare e descrivere coloro che si ipotizza abbiano commesso attività illecite legate al traffico di influenze.
E così ancora una volta ci troviamo a dover difendere d’ufficio una categoria, quella dei lobbisti appunto, che poco ha a che vedere con le pratiche di cui si racconta in questi giorni.
Simone Dattoli, ad & founder Inrete
Come rappresentante di una delle principali società di consulenza italiane in ambito public affairs e lobbying più volte negli anni sono intervenuto in tavoli di lavoro, dibattiti e anche in sedi istituzionali per portare testimonianze e contributi utili a dare forma e dignità ad un settore spesso male interpretato come quello delle relazioni istituzionali e della rappresentanza di interessi.
Negli ultimi cinquanta anni sono stati presentati in Italia quasi cento disegni di legge volti a regolamentare questo tipo di rapporti, e anche nella passata legislatura tutti i principali operatori del settore hanno convintamente sostenuto la necessità di una regolamentazione che supportasse un settore che ha vissuto un’evoluzione significativa negli anni, sia sotto il profilo degli strumenti che delle competenze, diventando sempre più uno strumento a supporto delle istituzioni e della politica piuttosto che un’attività portatrice di valori negativi.
E allora perché oggi ancora una volta ci ritroviamo a dover distinguere tra lobbisti buoni e lobbisti cattivi? Perché la mancanza di un reale riconoscimento della categoria, con precise regole di ingresso e di ingaggio lascia aperta la possibilità alla creazione di aree grigie in cui pratiche poco ortodosse possono insinuarsi.
Un esempio su tutti è quello delle cosiddette “revolving doors” e cioè la possibilità di impedire a chi ha ricoperto nel recente passato incarichi elettivi di poter semplicemente cambiare la giacca e diventare da decisore a portatore di interessi in un tempo talmente breve da consentire di poter far pesare il proprio precedente ruolo in maniera poco trasparente.
Una norma di buon senso, che spegnerebbe le aspirazioni lobbistiche e la voglia di guadagno di molti che, magari non più eletti e quindi rimasti privi di importanti emolumenti mensili, si improvvisano in un mercato fatto invece di professionisti e organizzazioni che rispettano e anzi invocano regole sempre più qualificanti per la determinazione di una categoria che non merita di essere sempre citata negativamente.