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(Ansa)
Politica

La Riforma della Giustizia è un passo avanti, non la soluzione dei problemi

Stop alle porte girevoli tra politica e tribunali; cambia il sistema di voto per il Csm ma le «correnti» peseranno ancora. Soprattutto intoccato il problema dei magistrati nei vari ministeri

Il Consiglio dei Ministri ha approvato all’unanimità la tanto discussa ed attesa riforma della giustizia. Che la cosa abbia un suo peso politico e che non sia stata un percorso in discesa lo ha ammesso in conferenza stampa lo stesso Mario Draghi spiegando come «ci sia stata una grossa discussione e altrettanta condivisione tra le forze politiche ed il Parlamento, anche se alcune differenze tra i partiti rimangono. Tutti però hanno capito che questa riforma necessitava di tempi rapidi anche il Parlamento dato che dovrà essere approvata prima dell’elezione del prossimo Consiglio Superiore della Magistratura».

Nel valutare il complesso di questa riforma serve però una notazione politica. La riforma è infatti figlia di due genitori: il primo è l’intervento molto duro, assolutamente inatteso, del Presidente della Repubblica nel suo discorso di giuramento di pochi giorni fa. Il secondo è l’Europa dato che tra i compiti a casa che l’Italia ha da fare per poter ottenere la seconda tranche dei miliardi del Pnrr c’era appunto la riforma della Giustizia e del Csm.

Questi due fattori di fatto hanno obbligato l’esecutivo ad un compromesso davvero delicato. Il bicchiere quindi è mezzo pieno o mezzo vuoto a seconda di come lo si voglia guardare. Di fatto rispetto alla situazione attuale ci sono delle cose positive ma quella vera e propria rivoluzione del sistema giudiziario, caduto in una crisi profonda di sfiducia tra gli italiani, che era necessaria di sicuro non è stata completata.

Tra gli aspetti positivi c’è sicuramente la questione delle cosiddette «porte girevoli», una cosa buona ed attesa un po’ da tutto il mondo politico. È quindi vietato esercitare contemporaneamente le funzioni giurisdizionali nonché quelle legate a incarichi elettivi e governativi, al contrario di quanto accade oggi. I magistrati potranno candidarsi ad elezioni politiche nazionali o locali ma non potranno farlo nelle regioni in cui hanno esercitato la loro professione nei tre anni precedenti il voto. E, per chi verrà effettivamente eletto, una volta concluso il mandato, non potranno più svolgere compiti giurisdizionali ma saranno messi fuori ruolo preso il Ministero della Giustizia o altre amministrazioni. La stessa sospensione di tre anni vale anche per chi si è candidato ma non è stato poi eletto.

Tra le cose invece che non convincono ci sono le norme sull’elezione dei componenti del Cdm che torneranno ad essere 30, 20 scelti dai magistrati e 10 da Parlamento come avveniva prima della riforma del 2002. Il sistema elettorale quindi cambia e diventa «misto» tra i 14 scelti con un sistema maggioritario in collegi uninominali e 5 con il proporzionale a livello nazionale. Per le candidature la novità è che scompaiono le liste ma ci si baserà sui singoli. Norma questa che difficilmente terrà lontano i candidati dall’influenza e dalle spinte delle correnti che negli ultimi hanno hanno fatto il bello ed il cattivo tempo.

Il varo problema che questa riforma non tocca è invece la questione della presenza dei magistrati distaccati nei vari ministeri; un vero e proprio «unicum» italiano con oltre 200 giudici che lavorano all’interno di quello che è il potere esecutivo creando così una pericolosa commistione di poteri.

E che il bicchiere non sia pieno per tutti lo dimostrano anche le reazioni di alcuni parlamentari dei vari schieramenti. Se infatti da una parte è vero come ha detto Draghi in conferenza stampa, che tutti i ministri hanno confermato l’impegno dei loro partiti per approvare la manovra in tempi rapidi, è altrettanto vero che c’è già chi chiede modifiche anche sostanziali durante la discussione in aula.

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Andrea Soglio