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Politica

«La Marcia su Roma fu prova muscolare, ideologica e spettacolare»

Lo storico Raffaele Romanelli ripercorre una delle vicende più importanti della vicenda contemporanea italiana. A cento anni esatti e in concomitanza con l'insediamento del Governo Meloni

Raffaele Romanelli, storico della Sapienza di Roma, ripercorre una delle vicende più importanti della nostra storia contemporanea, evidenziando come «la Marcia su Roma rimane una prova di forza connotata da un vistoso elemento spettacolare, molto ben giocato perché coronato da successo».

Proprio nella ricorrenza dei cent’anni della “Marcia su Roma”, Romanelli ha sottolineato come essa «non fu peraltro qualcosa di improvvisato, anche perché poteva contare su due illustri antecedenti, come la dannunziana “Impresa di Fiume” (1919-1920) e la garibaldina “Spedizione dei Mille” del maggio 1860».

Panorama.it ha incontrato lo storico per cercare di dissipare cento anni di incrostazioni storiche e di fare luce sul vero significato di quell’azione dimostrativa.

Professore, siamo alla vigilia di uno degli eventi centrali della nostra storia contemporanea: proprio nell’ottobre del 1922 iniziò il ventennio fascista…

«Sì, iniziò, almeno simbolicamente. Perché ricordiamoci che il 29 ottobre Benito Mussolini ricevette l’incarico di formare un governo, che il 16 novembre le Camere votarono la fiducia, e che fino al giugno del 1924 quel governo godette di una robusta maggioranza parlamentare, questione da non sottovalutare discutendo di regime fascista. Comunque, è vero, il 28 ottobre del 1922 è una data importante per gli italiani, come mostra il profluvio di pubblicazioni che l’accompagna».

Tra il 1920 e il 1922 un crescendo esponenziale di violenze e di illegalità in tutto il Paese anticipò quella dimostrazione di forza. Lo scopo era di militarizzare la lotta politica in Italia?

«La marcia su Roma si caratterizzò per la violenza, come atto di forza, con la concentrazione su Roma, ma anche nelle varie città attraversate, dove gli squadristi, raramente ostacolati, presero posizione davanti alle prefetture, ai commissariati di polizia, alle stazioni e intrapresero trattative con le autorità: lasciando pure qualche morto per le strade. Una violenza diffusa che ha consentito di celebrare la “marcia” come “rivoluzione”: in realtà la violenza era segno dei tempi, perché si era appena usciti da una guerra sanguinosa e la familiarità con le armi era diffusa».

Altre sfumature?

«Non va dimenticato quanto fosse infuocato, all’epoca, lo scontro di classe. Alle spalle rimaneva il “biennio rosso” 1919-‘20, un’agitazione socialista gonfia di parole rivoluzionarie e di atti cruenti. Si bruciavano bandiere, si insultavano le divise. Da parte fascista le spedizioni punitive incendiavano le case del popolo. Gli omicidi e le violenze fisiche in genere erano all’ordine del giorno».

In realtà la “marcia” vera e propria era stata anticipata a mezzo stampa…

«Precisamente da un articolo pubblicato il 6 agosto sulle pagine de “L’Avanti”, dal titolo “Il fascismo alla conquista della Capitale”. Si trattò di una prova muscolare, perché il fascismo stava attraversando un periodo di grande difficoltà: “rischiava di perdere”, disse lo stesso Mussolini».

La “marcia su Roma” rappresentò una sorta di gioco politico d’azzardo, allora?

«Gli atti di forza acquistano consistenza e rimangono nella storia se hanno successo. Così è stato per la “marcia”, della quale, lo ripeto, non va misconosciuta la componente violenta, soprattutto nelle città di provincia, ma che è ben poca cosa rispetto alla violenza che non ha avuto successo, come è avvenuto in tutti i cicli rivoluzionari dei socialisti massimalisti: e poi anche, in età repubblicana, nel fiume di sangue del terrorismo. E come tutte le prove di forza, ad un certo momento “rischiano di perdere”».

Atto di forza dal valore ideologico ben scolpito. Con autorevoli precedenti…

«Dunque, sì: una prova di forza connotata da un vistoso elemento spettacolare, molto ben giocato perché coronato da successo. Pensiamo che quell’iniziativa rimase incerta sino alla vigilia (il 28 sera Mussolini era a teatro a Milano, non lontano dal confine svizzero), ma che non fu peraltro qualcosa di improvvisato. Aveva un antecedente incisivo nella dannunziana marcia su Fiume (che costituiva un precedente anche nell’insubordinazione di reparti dell’esercito…). Per non dire del risorgimentale “mito della spedizione”: in fondo, l’11 maggio 1860 un manipolo d’uomini, con Garibaldi al comando, era sbarcato presso Marsala dopo essersi imbarcato alcuni giorni prima a Quarto, nei pressi di Genova. Garibaldi aveva osato e aveva vinto».

Marciare su Roma riservava un gusto del tutto particolare…

«Come non notare questa sottile sfumatura. Per i fascisti Roma era “il nostro simbolo, il nostro mito”, come aveva detto Mussolini. E ancora si pensi alla pregnanza di una “marcia su Roma”, iniziata sulle rive del Piave, come aveva detto di nuovo Mussolini a settembre, e diretta verso il luogo della politica imbelle, verso i governanti corrotti, una spedizione che del resto si è ripetuta (senza armi) nella storia repubblicana, quando dalla Padania ci si è mossi contro Roma ladrona, simbolo della mafia romana...».

All’indomani il re Vittorio Emanuele III conferì a Mussolini l’incarico di formare un nuovo governo, legalizzando così la sua ascesa al potere e normalizzando un vero atto di forza contro le istituzioni dello Stato.

«Questo è infatti il punto: la mancata firma dello stato d’assedio presentatogli da Facta, capo del governo. Noi non sappiamo come sarebbero andate le cose se quel decreto fosse stato firmato: certamente lì per lì le bande fasciste sarebbero state facilmente fermate. Ma poi?».

La storia - lei lo sa bene - non si fa con i “se” o i “ma”. Ma in questo caso qualche domanda è più che legittima.

«Il cedimento del Re, che segnò la monarchia fino all’indecoroso comportamento del 1943, fu il culmine di un tracollo che veniva da più lontano, rappresentò il marasma parlamentare, l’incapacità delle classi dirigenti di governare il paese, la vasta connivenza degli apparati dello Stato con le squadre, l’impotenza dei socialisti, il favore del ceto politico liberale -ancora nel primo pomeriggio del 28 ottobre, Salandra proponeva a Mussolini l’ingresso nel governo».

La Storia gioca brutti scherzi: l’anniversario cade in coincidenza con la formazione del nuovo governo. Cent’anni dopo esatti…

«Inutile dire che per la gioia degli editori, che da tempo hanno preparato molte opere sul 1922, l’interesse è accentuato dalla singolare coincidenza che fa cadere l’anniversario in un momento in cui il governo della Repubblica antifascista è retto da una leader e un da partito che del fascismo sono lontani eredi».

Similitudini?

«Non c’è dubbio, in effetti, che molte inclinazioni politiche della destra attuale, come il nazionalismo, la xenofobia, il maschilismo, o il familismo, possano giovarsi dei riferimenti ai regimi fascisti del primo Novecento, che del resto sono vivi nelle memorie e nelle tradizioni familiari di alcuni, e che i Fratelli d’Italia hanno evitato di cancellare. Basti pensare al gusto, ai modi, e alla biografia stessa del presidente del Senato appena eletto. Ma si tratta appunto di gusti e di modi che possono, è vero, incoraggiare qualche gesto sconsiderato di qualche teppista o gruppetto radicale, ma non intaccano la democrazia».

E’ passato un secolo, comunque…

«Ciò detto, d’altra parte, insistere sul carattere “fascista”, o filofascista, di Giorgia Meloni e dei suoi rischia di nascondere le vocazioni autentiche e le scelte della nuova maggioranza, che poco hanno a che fare col fascismo del secolo scorso e molto con altre tendenze attuali, come l’antieuropeismo, la vicinanza alle democrazie illiberale dell’Est o le ferite inferte ai diritti individuali».

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Raffaele Romanelli, classe 1942, già ordinario di storia contemporanea presso la Sapienza Università di Roma. Laureato nello stesso ateneo romano nel 1966, ha insegnato in diverse università, tra le quali l’Istituto Universitario Europeo di Firenze. Già presidente della Società Italiana per lo studio della storia contemporanea (SissCo), di cui è stato fondatore, per più di venti anni è stato nella direzione della rivista “Quaderni storici”. Dal 2010 al 2020 ha diretto il Dizionario biografico degli italiani curato dall’Istituto dell’Enciclopedia Italiana. Nelle mani del popolo. Le fragili fondamenta della politica moderna (Donzelli, 2021) è la sua pubblicazione più recente: ha in corso di stampa presso Laterza L’Italia e la sua Costituzione. Una storia.

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Egidio Lorito