Scuola, energia, Lep: l’autonomia cambia così
La Consulta pubblica le motivazioni della sua sentenza: approvata l’impalcatura della legge, ma deve essere il Parlamento a fissare i livelli essenziali delle prestazioni. Roberto Calderoli: «Saranno pronti entro il 2025. La Corte ha confermato che la nostra strada è giusta»
Con le motivazioni che ha emesso la Corte Costituzionale sui ricorsi presentati dalle Regioni alla legge sull’autonomia differenziata, si ha definitivamente chiaro che la Consulta non ha bocciato la riforma voluta dal ministro Roberto Calderoli. Anzi. Si tratta probabilmente del più fulgido esempio di come i poteri dello Stato possano virtuosamente lavorare insieme per migliorare una riforma che non solo non è stata bocciata, ma che può e deve essere migliorata sotto alcuni aspetti. Non a caso il ministro ieri era soddisfatto: «È la conferma che la strada intrapresa dal governo e dal Parlamento per l’attuazione dell’autonomia differenziata è giusta», ha detto. «Sono grato alla Corte di avere sottolineato ancora che l’autonomia differenziata costituisce uno strumento che premia l’efficienza delle amministrazioni, non produce divari territoriali e penalizza l'inefficienza».
I giudici hanno riconosciuto come il regionalismo corrisponda «ad un’esigenza insopprimibile della nostra società, come si è gradualmente strutturata anche grazie alla Costituzione». Partendo da questo principio esistono dei vizi e al centro di tutto, come già evidenziato il 14 novembre, c’è la definizione dei Livelli essenziali delle prestazioni (Lep). Nelle 109 pagine di Pronuncia, i giudici costituzionali evidenziano dei vizi che si ritrovano soprattutto all’interno della riforma del 2001, quella del Titolo V della Costituzione, nella quale si attribuisce alle Regioni, con l’art.116 comma tre, «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia». La Corte sostiene che è il combinato dell’articolo 116 terzo comma della Costituzione e l’articolo 3 della legge 86 (legge sull’autonomia) a creare dei problemi. L’art.116 infatti «non può essere considerato come una monade isolata». E ancora «l’ineliminabile concorrenza e differenza tra Regioni e territori, che può anche giovare a innalzare la qualità delle prestazioni pubbliche, non potrà spingersi fino a minare la solidarietà tra lo Stato e le Regioni e tra Regioni, l’unità giuridica ed economica della Repubblica, l’eguaglianza dei cittadini nel godimento dei diritti, l’effettiva garanzia dei livelli essenziali delle prestazioni (Lep) concernenti i diritti civili e sociali e quindi la coesione sociale e l’unità nazionale». Ancora una volta si ribadisce che è la definizione dei Lep a creare un problema, non la riforma in sé: «Poiché ogni materia ha le sue peculiarità e richiede distinte valutazioni e delicati bilanciamenti, una determinazione plurisettoriale di criteri direttivi per la fissazione dei Lep, che non moduli tali criteri in relazione ai diversi settori, risulta inevitabilmente destinata alla genericità». Per questo l’articolo 3 viene considerato costituzionalmente illegittimo. «Si tratta, in definitiva, di decidere i livelli delle prestazioni relative ai diritti civili e sociali, con le risorse necessarie per garantire uno standard uniforme delle stesse prestazioni in tutto il territorio nazionale».
Quindi la Consulta spiega che il conferimento di poteri alle Regioni deve riguardare «specifiche funzioni legislative e amministrative» e non intere materie, o ambiti di materie, come previsto dalla legge Calderoli. Ci sono competenze, nel lungo elenco (23 in totale) che la Costituzione ritiene astrattamente trasferibili alle Regioni, «alle quali afferiscono funzioni il cui trasferimento è, in linea di massima, difficilmente giustificabile secondo il principio di sussidiarietà». Le materie considerate non trasferibili sono: commercio con l’estero, tutela dell’ambiente, produzione trasporto e distribuzione nazionale dell’energia, porti e degli aeroporti civili, grandi reti di trasporto e navigazione. Nell’elenco finisce anche la scuola che «deve garantire un’offerta formativa sostanzialmente uniforme sull’intero territorio nazionale», per questo «non sarebbe giustificabile una differenziazione che riguardi la configurazione generale dei cicli di istruzione e i programmi di base, stante l’intima connessione di questi aspetti con il mantenimento dell’identità nazionale». Ma se le materie non si possono trasferire, possono invece essere trasferite le funzioni. Bisognerà però scegliere «per ogni specifica funzione, il livello territoriale più adeguato, in relazione alla natura della funzione, al contesto locale e anche a quello più generale in cui avviene la sua allocazione». Qui si torna ai Lep che per la Consulta non potranno essere stabiliti dal governo, ma dal Parlamento. «La sede parlamentare consente un confronto trasparente con le forze di opposizione e permette di alimentare il dibattito nella sfera pubblica, soprattutto quando si discutono questioni che riguardano la vita di tutti i cittadini».
Le motivazioni della sentenza della Consulta hanno diviso a metà il mondo politico. Calderoli ha sottolineato che «per quanto riguarda i Lep e relativi costi e fabbisogni standard siamo al lavoro per una soluzione da condividere in Parlamento», indicando anche una data: «Entro la fine del 2025». Ottimista anche il presidente del Veneto Luca Zaia: «Una sentenza che sembra quasi un’istruzione per l’uso» ha commentato , «nel frattempo continuiamo a lavorare perché, come dice la Corte, invece di chiamarli “ambiti di materie” o “materie” parleremo di “specifiche funzioni”, che è più corretto, ma il risultato non cambia: si lavora per l’autonomia». Soddisfatto il ministro degli Esteri e vicepremier di Fi Antonio Tajani: «In materia di commercio estero non possono esserci deleghe alle Regioni. Questo era il punto chiave che avevo sollevato». Invece per Michele Emiliano, governatore della Puglia, una delle Regioni che avevano presentato il ricorso, «la legge Calderoli tecnicamente non esiste più». E il leader M5s Giuseppe Conte dice: «Oggi la Corte costituzionale frena il progetto di autonomia con cui Meloni, Salvini e Tajani volevano fare a pezzi il tricolore e la nostra unità».