Terzo mandato per Xi Jinping, l'ultimo imperatore della Cina
Il plebiscito gli consegna definitivamente la Cina. Come da copione, Xi Jinping si è appena assicurato un terzo mandato consecutivo alla guida della Repubblica popolare cinese con zero voti contrari
Settant’anni il prossimo 15 giugno, Xi Jinping è da oggi ufficialmente il capo dello Stato cinese più longevo dalla vittoria comunista nel 1949. Cosa aspettarsi adesso da lui? Niente di diverso da quanto già tracciato in questo tempo, nel solco della tradizione di famiglia: quella paterna, e quella allargata dei compagni cinesi.
Pochi si sono soffermati sulla sua storia familiare del leader, ma vale la pena ricordare quanto profondamente Xi sia cresciuto insufflato dell’ideologia totalitarista del presidente Mao. Per capirlo bisogna risalire alla fine degli anni Trenta, e guardare alla remota cittadina di Yanan, a 960 metri di altitudine sull’altopiano del Loess. A quel tempo, Yanan era il capolinea dei guerriglieri comunisti provenienti dalla loro lunga marcia. «Un posto piccolo, un po’ come Cambridge» lo ha descritto l’artista dissidente Ai Weiwei, che condivide con il presidente più di quanto si creda.
A Yanan vivevano tutti i protagonisti della rivoluzione: il capo della guerriglia, un certo Mao Zedong; il premier Zhou Enlai; il futuro leader riformatore Deng Xiaoping. E anche Xi Zhongxun, padre di Xi Jinping, e il padre di Ai Weiwei, Ai Qing. Come il figlio di Qing ha seguito le orme del padre, poeta e pittore, dedicandosi all’arte, così Xi Jinping ha seguito pedissequamente quelle paterne, essendo stato Xi Zhongxun un alto dirigente della leadership rivoluzionaria cinese e un membro del Comitato centrale. Ed è naturale che Xi abbia ereditato da lui molte delle convinzioni che oggi il leader applica alla politica. Quando Xi non era ancora nato, il padre era già capo del dipartimento di propaganda del partito e supervisionava le politiche culturali ed educative della Cina comunista. Questo per dire come il grande sogno della rivoluzione comunista alberghi ancora nel presidente-segretario della Cina, e quanto questo aspetto, a suo modo imperialista, sia rilevante nell’analizzare la sua politica di potenza, tanto in chiave interna quanto estera. Anche se nel sistema di governo cinese le funzioni del presidente sono in gran parte soltanto cerimoniali – e dunque il potere di Xi deriva dal fatto che è segretario generale del Partito comunista e presidente della Commissione militare centrale – il fatto che gli siano stati consegnati entrambi i posti è un atto non squisitamente simbolico, ma piuttosto da tenere in gran conto per capire il tenore del livello decisionale in Cina.
Adesso, sarà interessante seguire la nomina del nuovo premier e dei vari ministri (cosa che dovrebbe avvenire nei prossimi giorni), perché è da queste scelte che si potrà decodificare con più precisione il corso che Xi intende dare al Paese. I nuovi nominati dovrebbero essere per lo più fedelissimi di Xi: e tra questi in particolare Li Qiang, che dovrebbe servire come numero due del regime. Lo scorso ottobre, infatti, il congresso ha sancito la netta vittoria dei lealisti, che attualmente occupano tutte e sette le sedie al Comitato Permanente del Politburo, e rappresentano dunque il gruppo più potente del Paese. Se Li Qiang - dall’ottobre 2017 segretario del Partito Comunista Cinese di Shanghai -sarà davvero il nuovo premier, le incertezze continueranno: in qualità di capo del partito di Shanghai, è stato lui lo scorso anno a supervisionare il disastroso blocco di due mesi della capitale finanziaria cinese, cosa che ha contribuito non poco a danneggiare l’economia nazionale. «Per questo motivo, molti sono rimasti sorpresi quando è stato promosso a numero due nella gerarchia del Partito Comunista» hanno commentato gli esperti del desk Asia della Bbc. In ogni caso, Xi sembra volersi avvalere solo dei suoi più fidati servitori, perché convinto che il solo sedere su un potere assoluto dove la parola dissenso è scomparsa dal vocabolario, sia sufficiente a ripetere il miracolo che nei decenni passati è effettivamente riuscito a compiere, portando la Cina all’attuale livello di superpotenza.
Ovviamente, tutto questo non dispiace ai suoi «alleati» con vocazione dittatoriale: il presidente russo Vladimir Putin e il nordcoreano Kim Jong-un sono corsi a congratularsi per primi con lui. Putin, in particolare, ha salutato l’elezione del presidente cinese riferendo che non vede l’ora di sviluppare ulteriormente insieme con lui la «relazione globale e l'alleanza strategica tra i nostri due Stati». Anche loro probabilmente si chiedono: che cos’ha in mente Xi Jinping relativamente a Ucraina, Taiwan, e cosa circa gli altri dossier interni come la denatalità e il rallentamento economico? «In un certo senso, Xi sta scommettendo che la centralizzazione del partito con lui al timone sia di per sé una soluzione a questi problemi disparati» ha commentato da Singapore il politologo Ian Chong. Ma può un uomo solo al comando cambiare i destini di una nazione-civiltà qual è l’immenso territorio della Cina? E circondarsi di un «cerchio magico» è utile opiuttosto controproducente ai dittatori? Per citare Voltaire, «molto spesso, dì quel che ti pare, un servo è solo uno sciocco».
Abbiamo detto dell’incognita Li Qiang, non proprio un Richelieu per il governo di Pechino. Anzi: gli osservatori s’interrogano se sia opportuno che possa essere affidato il compito di gestire l'intero Paese, proprio alla persona responsabile di un enorme fallimento logistico come l’applicazione della politica «zero Covid» voluta dal suo capo. Di certo, la lealtà anche tra i comunisti paga. «È intelligente ed è un buon operatore, ma ha sicuramente ottenuto il lavoro grazie alla sua lealtà nei confronti di Xi. Quando il presidente gli chiede di saltare, lui risponde “quanto in alto?”». Ad affermarlo è un uomo che ha rapporti con le alte sfere del Partito Comunista sin dagli anni Novanta, Joerg Wuttke, presidente della Camera di Commercio dell’Unione Europea Commercio in Cina.
L’idea che il fascino di Shangai sia svanito agli occhi degli investitori stranieri, come sostiene Wuttke in relazione alla cattiva gestione di Qiang, la dice lunga sulla prospettiva di una Cina assolutista che, anziché aprirsi a nuove prospettive, rintuzza e si trincera dietro i diktat del suo leader, sempre più circondato solo da «yes men». Probabilmente, questa è un’esagerazione e non tutto può essere riconducibile a Li Qiang, peraltro considerato un liberale in molti circoli bene informati. Ma se anche Qiang è stato ad esempio l’autore dell’accordo con l’americana Tesla per produrre in Cina le auto del futuro, da quando Xi Jinping ha ordinato di frenare le aziende tecnologiche, credendo che siano ormai diventate troppo potenti (vedi la vicenda di Jack Ma e della sua Alibaba) rispetto allo stesso governo di Pechino, è probabile che adesso se sarà nominato premier si ricrederà all’istante, facendosi sempre meno «aperturista» verso il libero mercato e le sirene occidentali.
In questo senso, potrebbe subire la stessa metamorfosi dell’ex premier e presidente russo Dmitri Medvedev, diventato nel giro di pochi anni da moderato a falco ultranazionalista. Della serie, chi si avvicina troppo al sole rimane bruciato. Ora dunque, se nella Cina di Xi è normale che i capi delle grandi società hi-tech «scompaiano» e vengano prelevati di notte in casa per essere interrogati dagli ufficiali di ispezione disciplinare del Partito - l’ultimo è stato il banchiere miliardario Bao Fan – di certo questo non potrà mai rappresentare un buon segnale per gli investitori e la finanza. Tantomeno sono buoni i segnali che Pechino manda all’esterno, con il riamo monstre della Cina che quest’anno aumenterà i propri investimenti nel settore militare del 7,2% e che ha ripreso parallelamente la corsa al nucleare e i test sui missili ipersonici. Dunque, «spese pazze» per le forze armate; una politica estera sempre più muscolare nel Pacifico e a Taiwan; la repressione tecnologica interna; il passaggio schizofrenico dalla politica «zero Covid» al suo repentino abbandono sulla scia di proteste diffuse; la crisi immobiliare incombente; l’alta disoccupazione giovanile; l’enorme calo di prestazioni nel settore dei servizi. Sono tutti gli elementi che descrivono bene il passaggio dal secondo al terzo mandato di Xi: quello di un dittatore che ha danneggiato la crescita cinese di cui era stato a sua volta artefice, e la cui reputazione di condottiero infallibile inizia a incrinarsi difronte alle sfide geopolitiche che il 2023 pone di fronte. Ma la scelta è compiuta, e non resta che aspettare.