Il primo gesto politico di Zingaretti? Le sue dimissioni
L'attuale segretario annuncia il passo indietro attaccando i rivali interni che rimangono spiazzati. I giochi sono tutti aperti, compreso il secondo mandato
E' il giorno del terremoto Pd. Come il comandante Schettino, Zingaretti abbandona la nave che affonda? E' la prima immagine che viene in mente, di fronte al gesto a sorpresa del segretario dimissionario. Da sempre accusato di inconsistenza, di non lasciare il segno, di non brillare per coraggio, indubbiamente stavolta ha spiazzato un po' tutti, persino i suoi stessi gruppi parlamentari. Anzi, si può dire che il primo vero gesto politico di Zingaretti è la sua scelta di andarsene. Ed è tutto dire.
Del resto, il fuoco amico contro di lui era diventato un incendio. Nella sua durissima lettera d'addio, "Zinga" lamenta d'essere diventato un bersaglio, ma negli ultimi mesi non ne ha effettivamente azzeccata una. Prima si è invaghito di Giuseppe Conte, al punto da affidargli la leadership dei progressisti. Poi si è impiccato all'aut aut "O Conte o voto", salvo poi subire la nomina di Mario Draghi. Poi si è attirato le ire delle donne del partito, per aver scelto una delegazione ministeriale completamente al maschile. Poi è stato accusato di snobbare i territori, e di essersi fatto soffiare i posti chiave di sottogoverno. Ma soprattutto, Zingaretti sconta la scelta di legarsi mani e piedi ai cinque stelle, addirittura offrendo loro le chiavi della giunta regionale laziale, con l'obiettivo di inglobarli nella casa socialdemocratica e farne parte integrante del centrosinistra. La famosa "Dottrina Bettini", che però funziona solo sulla carta, e non nei sondaggi. Anzi, stando agli ultimi numeri il Pd targato Zingaretti-Orlando naviga sul 14%. In pratica, è quasi più facile che i grillini si mangino i democratici, che non viceversa.
Ma non è affatto detto che quello di oggi sia un vero addio. Anzi: nei corridoi del partito si racconta che quella di Zingaretti potrebbe essere un' uscita tattica. Quella di tirarsi via d'impaccio, andare alla conta e tentare di farsi rieleggere alla prossima assemblea di partito del 13 e 14 marzo, evitando le forche caudine del congresso.
Sulla sua strada ci sarà probabilmente Stefano Bonaccini: il governatore emiliano impersona il tentativo di mandare in pezzi la linea filo-M5s. Nelle ultime ore sul suo nome si è registrata la convergenza degli ex renziani, della corrente di Base Riformista, e del nutrito filone dei sindaci dem, che passa da Beppe Sala a Giorgio Gori. Una esplicita richiesta di ripartire dai territori, con maggiore attenzione alle esigenze del mondo produttivo del Nord (ricordiamoci l'ultima uscita "salviniana" di Bonaccini sull'apertura dei ristoranti a cena). Insomma, buona parte del Pd considera Bonaccini il Draghi della situazione, mentre Zingaretti, al massimo, è assimilabile a Domenico Arcuri.
Adesso il partito è davanti a un bivio: I filo-zingarettiani usciti sconfitti daranno battaglia alla prossima assemblea, che assumerà le sembianze d'una resa dei conti? Si arriverà a uno scontro drammatico? Nel frattempo le truppe cammellate renziane uscite dalla porta rientreranno dalla finestra? L'unica cosa certa è che oggi il partito storico della sinistra italiana è una nave senza timone. Che rischia di schiantarsi al prossimo scoglio.