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ANSA/DANIEL DAL ZENNARO
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7 motivi per cui in Italia ha vinto il populismo

Dalle ragioni economiche a quelle politiche alla tendenza delle classi dirigenti ad assecondare le forze anti sistema per addomesticarle

Perché qui, perché in Italia i populisti hanno riportato quel successo elettorale che è mancato in Francia, in Germania, in altri paesi europei?

Perché altrove le forze politiche contrarie si sono difese e talvolta hanno rilanciato, spiazzando tutti e mettendo con le spalle al muro gli anti-sistema come ha fatto Emmanuel Macron, e in Italia invece non hanno trovato un comune terreno d’incontro?

Perché le istituzioni e le classi dirigenti nel resto d’Europa (persino in Grecia dove sono più deboli, per non parlare della Spagna) hanno immesso anticorpi che in Italia mancano?

Proviamo solo a mettere insieme alcune motivazioni di fondo.

1- Ci sono innanzitutto ragioni economiche. L’Italia ha pagato un prezzo più caro degli altri paesi. Nessuno ha attraversato un intero decennio in recessione. Oggi il prodotto lordo è ancora inferiore a quello del 2007, i redditi pro capite sono più bassi. Tutti gli altri paesi europei hanno recuperato quel che avevano perso in termini di crescita e benessere, l’Italia ancora no.

 2- Ciò ha provocato un terremoto in una società già scossa da mutazioni strutturali. L’apertura dei mercati, la rivoluzione tecnologica permanente, oltre ai due terribili shock (2008 e 2011) hanno inciso nella carne viva del paese, rimescolando se non proprio ridisegnando categorie, ceti, classi.

Ha fatto irruzione il nuovo proletariato digitale, mentre i gruppi un tempo garantiti hanno perso le vecchie protezioni e oggi vogliono recuperarle, non a caso hanno vinto i partiti neo-protezionisti.

Lo stesso modello italiano, quello della piccola impresa sostenuta dalla famiglia e dalla rete locale che faceva perno sul comune e sulle banche popolari, viene rimesso in discussione, forse per sempre.

3- Così, una gran parte della popolazione si sente minacciata, mentre l’Italia sta realizzando solo adesso quella trasformazione tecnologica che è avvenuta molto prima negli Stati Uniti e nel resto dell’Europa occidentale.

I piccoli imprenditori nella manifattura e soprattutto nei servizi, chiusi finora nelle nicchie protette dei mercati nazionali, capiscono che il mondo sta erodendo le loro posizioni di rendita, ma, per reagire, dovrebbero attuare profonde riorganizzazioni che mettono in pericolo il loro controllo.

I manager delle grandi imprese pubbliche sanno che le loro posizioni si stanno esaurendo; tuttavia la libera concorrenza riduce gran parte del loro potere.

I banchieri grandi e, soprattutto, piccoli e medi, vedono che le nuove tecnologie erodono il loro quasi-monopolio nella gestione della ricchezza finanziaria delle famiglie e nel finanziamento alle imprese; però non comprendono quale modello realizzare senza perdere la centralità che hanno avuto nel modello italiano.

Il costo di una burocrazia inamovibile e radicata nei suoi privilegi è troppo elevato, se ne rendono conto gli stessi dipendenti pubblici, eppure resistono duramente al cambiamento.

4 - Anche sul mercato del lavoro privato, emerge chiaramente che una parte degli occupati non sa fare quello di cui avrebbe bisogno una economia moderna e competitiva, e ciò vale in modo particolare per chi esce dalle scuole secondarie e dalle stesse università (buona parte della disoccupazione giovanile dipende da questo), tuttavia pochi hanno il coraggio di accettare il cambiamento; del resto manca una vera politica di aggiornamento, riqualificazione, riconversione della forza lavoro.

E proprio questo è l’aspetto più debole del Jobs act. In un tale scenario, i migranti e non solo quelli irregolari diventano l’incarnazione di una guerra tra poveri, per strapparsi il lavoro che c’è e spesso anche quello che non c’è.

Tutto ciò spiega in gran parte perché sono stati premiati i partiti che hanno promesso di resistere, proteggere, assistere, in sostanza di chiudere le porte alla globalizzazione e riesumare vecchie debolezze. Promesse da marinaio perché non ci vuole uno scienziato spaziale per capire che non saranno mantenute, ma tant’è.

5 - Le ragioni socio-economiche sono importanti, ma non chiariscono tutto. Nel voto e ancor prima nell’intera campagna elettorale si è manifestata di nuovo la debolezza delle istituzioni.

Gli anticorpi in grado di difendere l’impalcatura costituzionale in Italia sono troppo flebili. In Francia contro i movimenti neofascisti o populisti è sempre scattato il patto repubblicano che induce i singoli partiti, di volta in volta i socialisti o i gaullisti, a rinunciare alle proprie posizioni particolari in nome di un interesse generale.

In Italia non succede. Ed è impensabile che possa accadere come in Spagna dove lo stato centrale è sceso in difesa dell’unità nazionale contro la secessione della Catalogna con l’appoggio di tutti i partiti, compreso Podemos, pur non rinunciando a criticare gli errori commessi dal governo Rajoy. Una tale solidarietà e fermezza in Italia sarebbe impensabile.

6- A tutto ciò si aggiungono motivi squisitamente politici. Tra gli errori commessi dalle forze anti populiste c’è il rifiuto di riformare l’architettura istituzionale per favorire la governabilità, così come una legge elettorale fatta apposta per impedire la formazione di una maggioranza.

Aggiungiamo poi la voglia di rivincita di Matteo Renzi dopo la sonora sconfitta al referendum sulla costituzione, che gli ha impedito di avere uno sguardo di lungo periodo e lo ha fatto chiudere nel suo fortino assediato, o le incertezze di Forza Italia e i cedimenti a Salvini sia nei programmi sia, ancor più, nella composizione delle liste, come ha sottolineato Gianni Letta.

7 - Detto questo, bisogna considerare una caratteristica, anzi una vera e propria tara, che non si ritrova in nessun altro paese democratico: la tendenza delle classi dirigenti, in particolare quelle economiche, ad assecondare, spesso coccolare se non proprio alimentare, le forze anti sistema allo scopo di addomesticarle.

Una speranza che, dal fascismo in poi, si trasforma sempre in una grande illusione. Questo sovversivismo dall’alto è impensabile nei paesi più forti e nelle democrazie mature, là dove il sistema si difende, anche riformando se stesso, senza chiudersi nel proprio passato. Magari perde, come è successo più volte nella storia, ma combatte. In Italia troppo spesso si arrende senza nemmeno metter mano alla fondina.

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Stefano Cingolani

Stefano Cingolani, nasce l'8/12/1949 a Recanati e il borgo selvaggio lo segna per il resto della vita. Emigra a Roma dove studia filosofia ed economia, finendo a fare il giornalista. Esordisce nella stampa comunista, un lungo periodo all'Unità, poi entra nella stampa dei padroni. Al Mondo e al Corriere della Sera per sedici lunghi anni: Milano, New York, capo redattore esteri, corrispondente a Parigi dove fa in tempo a celebrare le magnifiche sorti e progressive dell'anno Duemila.

Con il passaggio del secolo, avendo già cambiato moglie, non gli resta che cambiare lavoro. Si lancia così in avventure senza rete; l'ultima delle quali al Riformista. Collabora regolarmente a Panorama, poi arriva Giuliano Ferrara e comincia la quarta vita professionale con il Foglio. A parte il lavoro, c'è la scrittura. Così, aggiunge ai primi due libri pubblicati ("Le grandi famiglie del capitalismo italiano", nel 1991 e "Guerre di mercato" nel 2001 sempre con Laterza) anche "Bolle, balle e sfere di cristallo" (Bompiani, 2011). Mentre si consuma per un volumetto sulla Fiat (poteva mancare?), arrivano Facebook, @scingolo su Twitter, il blog www.cingolo.it dove ospita opinioni fresche, articoli conservati, analisi ponderate e studi laboriosi, foto, grafici, piaceri e dispiaceri. E non è finita qui.

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