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ANSA /MICHELE NACCARI
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Processo trattativa Stato-Mafia: così Mori diventò Morini

Il capo scorta di Francesco di Maggio racconta di uno scuterista misterioso che inizialmente viene confuso con il generale

di Massimo Bordin

Le ultime udienze del processo palermitano sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia sono state centrate in massima parte sulla figura di Francesco Di Maggio, magistrato scomparso nel 1996, che fu vicedirettore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) nel 1993. Si è spaziato da Roma verso sud fino alla provincia messinese e verso nord a Milano, dove aveva lavorato un pubblico ministero assai attivo. Di Maggio è morto e non può raccontarsi. Di lui l’accusa offre una chiave di lettura come di qualcuno piazzato al Dap per favorire la trattativa ma, da quello che si sente in aula, i conti non tornano.

Il capo scorta, che lo seguiva ovunque, racconta di suoi sfoghi, assai irritato contro chi voleva ammorbidire il regime carcerario del 41 bis. E non si riferiva sicuramente ai carabinieri del Ros e dei servizi coi quali andava spesso a cena a Roma a Trastevere. Ce n’era uno, aveva raccontato il capo scorta in altri processi, che arrivava furtivamente dopo gli altri, in borghese e in motorino.

Era il generale Mario Mori, forse. O anche no. Incalzato dal difensore di Mori, l’avvocato Basilio Milio, e dal presidente della Corte, il capo scorta Nicola Cristella ha precisato che lo scooterista misterioso era il quasi omonimo generale Morini, dei servizi. Mori comunque alle cene c’era, ha raccontato, ed erano cene frequenti che certo non irritavano Di Maggio. E così i suoi movimenti nel carcere di Opera a Milano - a proposito dei quali le deposizioni del direttore del carcere milanese e quelle di alcuni suoi funzionari dell’epoca non coincidono - possono essere inquadrati, a tutto concedere, in quella concezione "un po’ spericolata" dei colloqui investigativi che accomunava Di Maggio e Mori secondo Loris D’Ambrosio, il consigliere giuridico del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, quando spiegava a Nicola Mancino (in una delle famose telefonate intercettate), come il Ros e Di Maggio fossero di idee opposte a quelle del ministro Giovanni Conso.

Mettere insieme il ministro garantista e il pm amico dei carabinieri era stato l’errore di partenza dell’inchiesta, sosteneva. Ma anche D’Ambrosio è morto, durante l’istruttoria, come si ricorderà. Quanto alle vicende messinesi sono stati sentiti due carabinieri allora in servizio alla territoriale, il colonnello Silvio Valente e il maresciallo Giuseppe  Scibilia, oltre all’allora pm Olindo Canali.
La storia che li riguarda è la mancata cattura del capo mafia latitante, Nitto Santapaola. Appare chiaro che in quella vicenda il Ros, con il "capitano Ultimo" che si mise a sparare contro uno che non c’entrava, non fece un figurone. Pare azzardato però sostenere che tutto fosse architettato per far scappare il latitante, infatti i carabinieri di questo non sono mai stati imputati.

Eppure l’ipotesi continua a essere riproposta in questo processo come in altri. Infine è stato sentito il pentito Gaetano Grado che ha esordito dicendo: "Non ritengo opportuno parlare di politici. Posso parlarvi di Berlusconi e dello stalliere Mangano" che col processo nulla c’entrano. Ma tutto fa spettacolo e dunque ne ha parlato.  

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