Profughi siriani in Giordania: in equilibrio tra accoglienza e dignità
Ad Amman, lontano dai campi dell'Unhcr, migliaia di siriani in condizione di semi-abbandono, tra affitti costosi, spese sanitarie e mancanza di prospettive
“Della mia vita a Homs non sono riuscito a portar via molto. Quando siamo scappati, il mio primo pensiero era mettere in salvo le mie figlie femmine. Avevo sentito di sequestri e stupri…”.
Scuote la testa Adam; l’amarezza gli si legge in volto e non è difficile immaginare ciò che si è lasciato alle spalle. È una giornata afosa ad Amman e sul laboratorio in una traversa di Mecca St. scende il silenzio, interrotto solo dal rumore delle pale del vecchio ventilatore.
“L’unica cosa che mi è rimasta è il mio mestiere”. Adam è un falegname e in Giordania è riuscito ad aprire una piccola bottega dove produce mobili di piccolo taglio. “Ho chiesto un permesso di lavoro, che ho pagato circa 300 dinari e ho iniziato a vendere le mie creazioni. L’ispettore del lavoro mi ha detto chiaramente che per le nuove leggi del Paese avrei dovuto assumere principalmente artigiani giordani”.
Avvantaggiare l’occupazione dei cittadini autoctoni è, infatti, uno dei punti cardine nelle ultime politiche di gestione dei migranti.
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Le aziende private devono assumere cittadini giordani e solo in casi eccezionali siriani. Tra la gente seduta nei vari kahwé del centro, i colorati caffè, si sentono frasi tipo “i siriani ci portano via il lavoro”, “i siriani ci hanno invaso portandoci i loro problemi”.
Potrebbero suonare come frasi razziste, ma se si guardano i numeri, sette milioni e mezzo di abitanti e oltre 700mila nuovi profughi negli ultimi sei anni, si capisce che l’impatto demografico e sociale è molto forte.
A partire dal XIX secolo, le ondate migratorie hanno fortemente influenzato la struttura sociale del regno hashemita: prima sono arrivati i caucasici, poi i palestinesi, gli irakeni e i siriani.
Oggi la maggior parte della popolazione è formata da palestinesi naturalizzati giordani. Con i siriani si vuole prevenire quella che molti percepiscono come una “nuova invasione”.
Accoglienza sì quindi, ma con regole molto rigide. Le auto siriane non possono circolare e le patenti dei siriani vanno rinnovate di anno in anno.
Nelle scuole, l’accettazione di bambini siriani è a discrezione dei presidi e spesso i piccoli profughi possono frequentare solo i corsi pomeridiani sostenuti dall’Unicef.
I servizi sanitari e i farmaci sono a pagamento per gli stranieri, anche se sono nella condizione di rifugiati.
Sulla carta è tutto chiaro, perfino comprensibile, ma i riflessi sulla vita dei profughi, prevalentemente donne e bambini, sono drammatici. Ai margini del balad, la città vecchia, si trovano palazzine fatiscenti, apparentemente abbandonate, dove vivono decine di siriani.
Come Nayla, che è rimasta sola con le figlie dopo che il marito è rimasto ucciso in combattimento a Dar’à. Vive in una baracca dopo essere fuggita dal campo di Zaatary, dove è rimasta due settimane e deve anche lottare contro il cancro. Gli aiuti della mufawadiya, l’Unhcr, le bastano a malapena per pagare l’affitto e fare qualche spesa.
“Ho smesso di andare dal medico perché le visite sono a pagamento e comunque non posso permettermi le cure. Mi chiedo solo cosa ne sarà delle mie figlie quando non ci sarò più. Qui in Giordania non abbiamo nessuno”.