Quelle ombre dietro la giornata storica sulle foibe
L'università di Trieste che si piega a diktat politici, un documento compromettente firmato dall'allora ministro degli Esteri Angelino Alfano, le richieste di revoca della medaglia allo scrittore Boris Pahor, gli esuli spaccati... Tutti i retroscena della visita di Sergio Mattarella e del presidente sloveno a Basovizza.
Il 13 luglio il capo dello Stato, Sergio Mattarella, e il presidente sloveno Borut Pahor hanno reso omaggio, per la prima volta assieme, alla foiba di Basovizza, monumento nazionale e tomba degli italiani massacrati da Josip Broz Tito. All'ombra degli osanna, però, stanno emergendo strascichi e retroscena, che fanno capire quanto sia stata politicamente imposta la giornata «storica», comprese pesanti pressioni del Quirinale sui giornalisti non allineati. All'inizio era prevista solo la restituzione del Narodni dom, la Casa del popolo degli slavi presso l'hotel Balcan di Trieste, che secondo la storiografia ufficiale fu incendiata dai fascisti il 13 luglio 1920. In realtà esistono ricostruzioni ben diverse, se non opposte, e nessuno ha ricordato l'uccisione di un ufficiale e un marinaio italiani a Spalato oltre a un giovane patriota a Trieste per mano degli ultranazionalisti slavi, che provocò la manifestazione davanti all'hotel Balcan.
L'edificio, oggi sede dell'ex Scuola interpreti dell'università di Trieste, «è valutato 14-15 milioni di euro», secondo i verbali del consiglio di amministrazione dell'ateneo. Nel cda del 31 gennaio il rettore, Roberto Di Lenarda, «comunica, che in occasione del centenario dell'Hotel Balcan, il 13 luglio 2020, vi è una forte volontà politica sia nazionale che locale, di sottoscrivere un atto ufficiale con cui attuare (…) la restituzione alla comunità slovena di "Narodni Dom", attuale sede della Sezione di Studi in lingue moderne per interpreti e traduttori». L'appiglio è una legge di 19 anni fa che non prevedeva la restituzione, ma il trasferimento alla regione Friuli-Venezia Giulia, mai avvenuta, entro il 2006. Il rettore «sottolinea che, di fronte a una volontà politica così determinata, l'opposizione dell'Ateneo non potrebbe che portare svantaggi politici, oltre a un notevole danno di immagine».
L'unico ad alzare il dito è il consigliere Piero Gabrielli, rappresentante del personale tecnico amministrativo. Uno dei figli del leggendario Italo, battagliero esule istriano, docente universitario e consigliere comunale a Trieste, che ha dovuto lasciare la sua terra alla fine della seconda guerra mondiale davanti alle violenze dei partigiani jugoslavi di Tito assieme a 300.000 italiani. Gabrielli «chiede quanto sia inevitabile la restituzione dell'attuale sede dell'ex Scuola interpreti, dato che esistono ricostruzioni storiche dell'incendio occorso di segno contrapposto». Una voce isolata di fronte alla Realpolitik universitaria, confermata nel consiglio di amministrazione del 29 maggio. Il rettore «ricorda l'esistenza (…) di un più recente accordo, sottoscritto dall'allora Ministro Angelino Alfano con il ministro degli Esteri sloveno, che obbliga lo Stato italiano a restituire alla comunità slovena di Trieste l'edificio di Via Filzi 14».
La minuta dell'accordo del 9 novembre 2017 (vedi qui sotto) conferma come i ministri dei due Paesi «considerano la restituzione del Narodni Dom in Via Filzi a Trieste (….) e su richiesta del collega sloveno il ministro Alfano concorda di accelerare la restituzione e il restauro dei locali entro il 2020». Il baratto è contenuto nelle ultime righe della minuta: «La parte slovena riconosce l'alta qualità della candidature della città di Milano come nuova sede dell'Agenzia europea del farmaco (Ema) e si impegna a sostenere pienamente l'Italia nelle prossime elezioni, in occasione della riunione del Consiglio Affari Generali del 20 novembre, con il maggior numero di punti al primo turno di votazioni e con il suo voto nei turni successivi». Il documento porta la firma del ministro degli Esteri, Angelino Alfano e dell'omologo sloveno Karl Erjavec. Il Parlamento italiano non è mai stato informato di questo accordo e 11 giorni dopo l'Italia perde lassegnazione dell'Agenzia del farmaco, che va finire ad Amsterdam, per un discusso sorteggio, nonostante l'appoggio di Lubiana.
La minuta dell'accordo del 9 novembre 2017 fra Italia e Slovenia.
Gli sloveni passano lo stesso all'incasso garantito il 24 gennaio a Gerusalemme dal capo dello Stato, Sergio Mattarella al presidente sloveno Borut Pahor, a margine del forum dei leader per la giornata della Memoria, una settimana prima del consiglio d'amministrazione dell'università di Trieste, che di fatto si piega al diktat politico. «Più che la politica si trattava di una legge dello stato del 2001 e dell'accordo di Alfano. Una forte esigenza rappresentata a livelli diversi all'università. Ne abbiamo solo preso atto» spiega il rettore Di Lenarda a Panorama.
Il consigliere Gabrielli, l'unico a opporsi, racconta che nei cda «la sensazione era di di generale rassegnazione nei confronti di poteri ben più forti, che avevano già deciso tutto. Ma pure volontà di non rimetterci». Il 10 luglio si riunisce il consiglio di amministrazione dell'università per autorizzare il rettore a firmare il protocollo che cede l'edificio agli sloveni. Gabrielli prepara un testo scritto, che parte da un ricordo degli anni Settanta: «Quando mio padre, profugo da Pirano, combatteva, come lui stesso diceva, "con alterna fortuna, per salvare la Patria". Sappiamo come è andata a finire, sappiamo come andrà a finire in questa occasione. (…) La mia mente (…) è tornata ai cedimenti di parte italiana che hanno portato alla sottoscrizione e successiva ratifica del Trattato di Osimo. È da quel periodo (anni '75-'77) che Trieste non assiste a cedimenti di questa portata». Osimo firmato con Tito è la pietra tombale sulle rivendicazioni degli esuli istriani, fiumani e dalmati.
Gabrielli ricorda che la restituzione avviene «in barba non dico ad una verità storica dei fatti – sui quali non c'è identità di vedute – ma principalmente in barba al già concesso risarcimento dei danni di quell'incendio (dell'hotel Balcan, nda). Infatti, come concordato dal Memorandum di Londra del '54 (in occasione del ritorno di Trieste alla Patria), l'Italia ha finanziato la costruzione del Teatro stabile sloveno di via Petronio (a Trieste, nda). Pure nel suo sito internet si legge che il teatro "dal 1964 ha sede presso il Kulturni dom, costruito in risarcimento del Narodni dom". Pagina di storia che dovrebbe pertanto essere già chiusa da entrambe le parti».
Poi Gabrielli elenca tutta una serie di dubbi tecnici e amministrativi su autorizzazioni, problemi e possibili perdite economiche per l'università. L'opposizione rimane solitaria. «Nessuno ha battuto ciglio. Alla fine il mio intervento, messo a verbale, è rimasto lettera morta» racconta Gabrielli. Su 11 membri del consiglio di amministrazione, compresi i rappresentanti degli studenti, solo il figlio dell'esule istriano vota contro il via libera alla cessione. «Ho preso atto della posizione di Gabrielli e rispetto le sofferenze di suo padre e di tante altre persone per le tragiche vicende del passato, ma in quel momento l'obiettivo era fare la scelta migliore per il bene dell'università. E l'elemento inderogabile è che l'ateneo non ci perdesse nulla, che non dovesse pagare alcun "prezzo"» spiega il rettore a Panorama.
La minuta dell'accordo del 9 novembre 2017 fra Italia e Slovenia.
Il protocollo di cessione, secondo Di Lenarda, garantirà all'università una nuova sede per l'ex scuola interpreti, nel giro di 7-8 anni, migliore della precedente. «C'è l'impegno del ministero dell'Istruzione per coprire integralmente i costi per l'adattamento di questa struttura» sottolinea il rettore. E nella girandola di scambi di edifici previsti dal protocollo, Di Lenarda assicura che «dal punto di vista patrimoniale non perderemo nulla, al limite, avremo un vantaggio». La volubilità della politica, i cambi di governo, la coperta sempre troppo corta dei fondi a disposizione possono sempre nascondere trabocchetti in un complesso tragitto che durerà anni. Per questo motivo il rettore si impegna «a vigilare. Non starò zitto se qualcuno vorrà cambiare il progetto che ho firmato».
Al di là dell'università, i conti per lo Stato italiano e in definitiva le nostre tasche sono pesanti: il teatro sloveno costruito nel 1964 è costato l'equivalente attuale di 3,5 milioni di euro, l'ex scuola interpreti è valutata sui 12-15 milioni e la ristrutturazione della nuova sede «necessita di circa 18-20 milioni di € per essere qualificata», come si legge in un verbale del cda dell'università. In totale pagheremo ben oltre 30 milioni di euro per accontentare Lubiana e la minoranza a Trieste per il rogo dell'hotel Balcan di 100 anni.
«Tre a zero per gli sloveni» attacca Massimiliano Lacota, presidente dell'Unione degli istriani, radicata associazione degli esuli, che per protesta non ha partecipato alla cerimonia del 13 luglio. «In prefettura al discorso ufficiale per la firma del protocollo di cessione, il presidente Pahor non ha pronunciato una sola volta le parole foibe o comunismo. E per di più Mattarella si è recato al monumento dei fucilati slavi durante il fascismo per atti di terrorismo, che puntavano a "liberare" la Venezia Giulia dagli italiani» dichiara Lacota. «Abbiamo restituito l'ex Balcan, ma gli esuli attendono ancora giustizia per i beni abbandonati a Tito. E il capo dello Stato nell'incontro con le associazioni a margine del 13 luglio ha detto "è impossibile risarcire, ma (solo) alleviare le sofferenze"».
Per molti esuli l'offesa finale della giornata «storica» è stata la consegna di Mattarella a Boris Pahor di un'alta onorificenza italiana. Lo scrittore e attivista sloveno ultracentenario sostiene di ricordare i dettagli dell'incendio del Balcan quando non aveva ancora compiuto sette anni. Poco prima di ricevere la medaglia, Pahor ha dichiarato riferendosi al «giorno del Ricordo del 10 febbraio (voluto dagli esuli per le foibe nda)» e alle accuse «all'armata jugoslava (di Tito che occupò anche Trieste per 40 giorni nda), che ha fatto gettare nelle foibe non so quanti italiani è tutto una balla, non era vero niente». L'intellettuale si riferiva a una lettera critica inviata a Mattarella, che aveva attaccato i negazionisti delle foibe in occasione del 10 febbraio.
Mattarella e Pahor, il 13 luglio 2020, al cippo che ricorda quattro giovani slavi antifascisti fucilati il 6.9.1930 (Ansa).
Nella missiva Pahor riprende la tesi di un suo testo per uno speciale di MicroMega del 2015, «Ora e sempre Resistenza», in occasione dei 70 anni della fine della seconda guerra mondiale. Nel suo Contributo della resistenza slovena, ricorda gli eccidi di Tito nei confronti dei prigionieri di guerra slavi a guerra finita, ma non le vittime italiane. Al contrario critica «la legge che istituisce il Giorno del Ricordo, fissato nel 10 febbraio» considerando che «non è adatta a promuovere una visione storica comune, perché è monca, è unilaterale, parla del ricordo italiano, tralascia il ricordo altrui. Il male che ne deriva è che le "nuove generazioni hanno così una visione storica errata"». La prefazione del volume di MicroMega è del capo dello Stato, Sergio Mattarella.
Non c'è da stupirsi se Maurizio Gasparri di Forza Italia, da sempre vicino agli esuli, bolla come «una vergogna» l'onorificenza di Cavaliere di Gran Croce della Repubblica italiana a Pahor. «Gli va tolta, senza tentennamenti - conclude il senatore - perchè ha avuto il coraggio di dire che le foibe sono una balla. Ha 107 anni ma l'età avanzata non gli consente di dire fesserie". Dopo la medaglia a Pahor «diventa molto difficile la revoca della più alta onorificenza italiana concessa dall'allora presidente Giuseppe Saragat a Tito» sostiene Lacota, fautore della battaglia per cancellare il riconoscimento, che campeggia nella lista delle decorazioni sul sito del Quirinale.
Molti esuli, a cominciare dai «familiari delle vittime giuliano dalmate», hanno protestato o scritto direttamente a Mattarella esprimendo «stupore e sconcerto» per la scelta di celebrare anche i fucilati slavi, per la gestione della vicenda del Balcan e per la medaglia a Pahor. Anche Antonio Ballarin, presidente della Federazione delle Associazioni degli esuli istriani, fiumani e dalmati, che si è allineato ai diktat del 13 luglio, per l'importanza della presenza dei due capi di stato sulla foiba, adesso aggiusta il tiro. «Vedere i due Presidenti per mano è stato bello ma ora» chiede Ballarin, «dobbiamo chiudere i conti e sono molti. C'è un tavolo di concertazione alla presidenza del Consiglio che si è riunito l'ultima volta sotto la direzione di Maria Elena Boschi».
Gasparri ha chiesto al premier, Giuseppe Conte, di incontrare gli esuli senza ottenere risposta. «Siamo stanchi di essere considerati figli di un Dio minore» spiega Ballarin. «Chiediamo che vengano riconosciuti i nostri diritti dopo 75 anni. Un equo indennizzo (per i beni abbandonati nda), che non è una questione di denaro, ma di principio. E con i soldi che avanzano si crei una Fondazione per la tutela della cultura adriatica giuliano-dalmata. Inoltre dovremmo avere un senatore a vita che rappresenti il nostro mondo e possa tutelare la nostra storia».
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