Renzi, Grillo, Napolitano, papa Francesco: chi è il vero populista?
Tra svolte autoritarie e troppa demagogia, la parola populismo ha perso il suo vero significato
Uno spettro s’aggira nella politica italiana, lo spettro del populismo. Populista ormai è qualcosa più di un’ingiuria, è un anatema, un termine che vuole evocare scenari sudamericani, svolte autoritarie, derive demagogiche. Persino il premier Enrico Letta, di solito così misurato, assume un’aria sprezzante nel giorno della fiducia al suo governo quando dice che lui i voti dei populisti non li vuole (O meglio non li vuole più). Il presidente Napolitano addita il populismo come una minaccia. Ma cosa intendono precisamente con il termine populismo i suoi detrattori?
A una valutazione empirica viene il sospetto che populismo sia l’arma verbale usata da un’elite d’apparato senza consenso popolare contro figure e soggetti politici che invece un consenso ce l’hanno e pure vasto. Populista dunque Grillo, populista Renzi, populista Berlusconi, populista addirittura Papa Francesco sospetto a sinistra per le sue simpatie giovanili peroniste, inviso ai tradizionalisti per il suo rivolgersi direttamente ai fedeli scavalcando le gerarchie ecclesiastiche, stravolgendo rituali consolidati. Frutto del populismo, secondo il direttorio, è naturalmente anche la mobilitazione del Movimento 9 dicembre e dei Forconi: piccoli e medi imprenditori, artigiani, operai, disoccupati, padri di famiglia massacrati dal combinato disposto di crisi, pressione fiscale e politiche europee, descritti come feccia, confusi con gli infiltrati professionali delle estreme e delle curve, minacciati dal Viminale con toni che non si sentivano dai tempi di Mario Scelba, dileggiati dall’Unità come massa sottoproletaria.
A capire che l’accusa di populismo è l’arma spuntata di snob senza forza è stato per primo Gianroberto Casaleggio lo scorso novembre che dal palco di Genova durante una manifestazione Cinque Stelle si è detto “fieramente populista”. Casaleggio in realtà osteggia solo le elite di cui non fa parte ha però il merito, il guru dei Cinque stelle, d’aver rotto un tabù: ha capito che il termine populismo, usato come capo d’accusa, ritorna come un boomerang addosso a chi lo ha lanciato. La melanconica fine politica di Mario Monti dovrebbe insegnare qualcosa a proposito. Ma si sa, i chierici del politically correct pretendono di avere la testa più dura della realtà. E insistono. E così alla vigilia delle primarie Matteo Renzi viene investito da una batteria di fuoco: “È un populista” dicono in coro L’Huffington Post di Lucia Annunziata, l’ex direttore dell’UnitàConcita De Gregorio ed Eugenio Scalfari che per sovramercato gli dà anche dell’avventuriero. “Un populista mite” corregge Nichi Vendola.
Ma Renzi ha consenso perché è populista o è populista perché ha consenso? Chissà. Intanto alle primarie ha ottenuto un plebiscito dall’elettorato spazzando via il vecchio apparato del Pd. La conferma del Kaly Yuga, l’era terminale del mondo, per chi a sinistra ha sempre creduto che Renzi fosse un allievo del capo di tutti i populisti, Silvio Berlusconi. L’uomo che ha osato interloquire direttamente con la gente dalle piazze e dalle televisioni, che ha archiviato la lunga stagione del doroteismo linguistico della politica italiana, il bel tempo andato delle “convergenze parallele” e dei “ragionamenti” di Ciriaco De Mita, quando una dichiarazione di “non indisponibilità” era una candidatura ed esistevano “le istanze espresse dai momenti superiori del partito”. In realtà chi usa il populismo come un epiteto ingiurioso non sospetta l’importanza, spesso nemmeno l’esistenza, di saggi comeLa ribellione delle elite di Cristopher Lasch, Populism di Margaret Canovan, ignora gli studi di Paul Piccone sul populismo democratico.
Non sa o non ricorda che gli Stati Uniti d’America – come dice il politologo Dino Cofrancesco - hanno conosciuto non poche ondate populistiche che hanno semmai rafforzato non indebolito, la sovranità popolare. Il populismo democratico riconosce il “buon senso” dell’uomo comune, incarna l’opposizione al centralismo e al burocratismo, all’astrazione delle ingegnerie istituzionali, allo strapotere di oligarchie politico finanziarie distanti e arroganti, come quella delle commissioni Ue, rivendica l’idea di comunità e la centralità dei cittadini, fino a prova contraria i depositari della sovranità. Questo populismo non è un pericolo per la democrazia ma la sua estrema e ultima risorsa. “Le democrazie hanno bisogno dell’insorgere occasionale di populismo – dice Canovan, per nulla simpatizzante, peraltro, con il fenomeno - per costringere i partiti a tener conto delle rivendicazioni popolari”. Sarà che le elite italiane - come dice Renato Brunetta - non hanno mai amato il popolo ma insomma prima o poi dovranno pur farsene una ragione che il popolo esiste, addirittura, horribile dictu, che vota “Signora mia!”.