Renzi stravince le primarie: adesso i rischi sono tutti suoi
Roma, Napoli, Trieste e Milano: trionfi dei candidati del premier. Ora però viene il bello, le sconfitte avrebbero effetti pericolosi sul governo
Matteo Renzi fa tris. Anzi, poker.
Tutti i candidati usciti vittoriosi da queste ultime primarie sono suoi: Beppe Sala a Milano, Roberto Cosolini a Trieste, Valeria Valente a Napoli e Roberto Giachetti a Roma.
Nella Capitale il vicepresidente della Camera, lanciato dal palco dell'ultima Leopolda quando sullo schermo alle sue spalle fu proiettata, a sua insaputa, un'immagine del Campidoglio e dalla platea si alzarono grida “sindaco, sindaco, ha letteralmente schiacciato (70 a 30) il candidato della sinistra dem Roberto Morassut.
A Napoli Antonio Bassolino, considerato da Renzi un vecchio arnese della politica da rottamare, si è visto superare, anche se di poco, da una giovane donna che potrebbe essere sua figlia e che politicamente lo è stata davvero.
Primarie a Napoli e Roma: il Pd di Renzi vince, ma non convince
Un successo su tutta la linea che gli avversari del premier vorrebbero far passare, almeno a Roma visto che a Napoli l'affluenza è cresciuta, per un flop.
Perché, sottolineano i democratici antirenziani, come ha fatto anche Massimo D'Alema dal seggio presso cui ha votato, di “crollo della partecipazione” rispetto ai 100mila del 2013.
Ma hanno ragione? Si è trattato di un vero flop o il confronto con il precedente più prossimo, quello del 2013, e l'analisi delle condizioni in cui si è arrivati all'appuntamento di ieri, raccontano un'altra storia?
Il 2013 fu un'altra storia
Le primarie del 2013 arrivarono dopo cinque anni di amministrazione di centrodestra guidata da Gianni Alemanno.
La coalizione che si presentò alle primarie comprendeva anche Sel che non solo, inizialmente, si presentò con un suo candidato, Luigi Nieri, ma che poi decise addirittura di farlo ritirare per convergere su uno dei candidati del Pd, Ignazio Marino, di cui proprio Nieri in seguito diventò vicesindaco per effetto di quell'accordo.
I candidati erano quasi tutti pezzi da novanta della politica romana o comunque personalità in grado di attrarre una buona fetta di consenso: a parte Ignazio Marino, allora senatore e presidente della commissione parlamentare d'inchiesta sul servizio sanitario nazionale nonché già candidato alla segreteria nazionale del Pd nel 2009, in corsa c'erano l'attuale ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, l'attuale eurodeputato David Sassoli, una rappresentante della sinistra romana tra le più stimate e riconosciute come Gemma Azuni, la renziana della prima ora, già presidente del municipio dell'Eur Patrizia Prestipino e un giovane e spigliato avvocato, figlio dell'ex segretario dei socialisti di Roma, Mattia Di Tommaso.
Non solo, mentre ieri la scelta ha riguardato solo il candidato sindaco e quattro candidati presidenti di municipio su quindici, allora, nel 2013, si votò l'intero pacchetto. Un elemento che da un punto di vista anche solo prettamente numerico, fa la differenza.
Quello che poi non tengono in considerazione coloro che oggi parlano di “flop” dell'affluenza è che queste primarie, che il Pd ha deciso di celebrare pur essendo ancora commissariato, arrivano a soli quattro mesi dalla caduta traumatica di Ignazio Marino e a poco più di un anno dallo scoppio dello scandalo su Mafia Capitale.
Un mix di elementi (a novembre il Pd era dato al 12%) che si sarebbe potuto tradurre facilmente in un black out totale. Un black out che invece non c'è stato, a meno che non si voglia considerare tale la presenza ai seggi di 50mila persone che, in un giorno di pioggia, sono uscite di casa e hanno versato almeno due euro per esprimere la propria preferenza.
Le colpe degli sconfitti
Ma non è finita qui. Oggi alcuni commentatori della carta stampata scrivono che a portare questi 50mila romani al voto sarebbe stato soprattutto il vecchio apparato. Nulla di più falso. Il cosiddetto vecchio apparato o è rimasto a casa, suggerendo ai propri simpatizzanti di disertare i gazebo, o ha portato a votare solo quelli di Roberto Morassut che, a giudicare dai risultati (è stato sconfitto in tutti i seggi, compreso il suo), sono stati molto ma molto pochi.
Il che dimostra che a pesare sul dato d'affluenza è anche stato lo scarso appeal degli sconfitti e di una campagna elettorale per le primarie che non è mai decollata e non ha certo entusiasmato gli animi anche per questa ragione.
Chi aspettava Bray
Per non parlare della campagna mediatica scatenata contro queste cosiddette “primarie farsa” dagli orfani di Ignazio Marino, dalla sinistra extra Pd che si è chiamata fuori coagulandosi intorno a Stefano Fassina ma coltivando il sogno proibito di una discesa in campo dell'ex ministro della Cultura Massimo Bray e, in larga parte, anche dalla sinistra Pd antirenziana che non aspetta altro di dare a Renzi quella spallata definitiva finora sempre rimandata.
Adesso Renzi ha tutta la responsabilità di vincere
Ciò non toglie che, a questo punto e di fronte a questi risultati, Matteo Renzi ha da oggi su di sé tutta la responsabilità di vincere la partita che conta davvero, ossia quella delle amministrative di giugno.
Per riuscirci dovrà uscire allo scoperto molto di più di quanto abbia fatto in queste ultime settimane e mettere la faccia ovunque.
Il fatto che punti ad avere il M5S ai ballottaggi dimostra il contrario di quanto alcuni vanno dicendo e cioè che, tutto sommato, non gli dispiacerebbe che vincessero i grillini perché così, dopo un paio d'anni di disastri amministrativi, sarebbe finalmente riuscito a toglierseli di mezzo.
I grillini, il bersaglio
Renzi, come Giachetti a Roma che ieri li ha citati come gli unici veri avversari che riconosca, vuole i grillini al ballottaggio per prendere i voti del centrodestra.
La suggestione circolante in questi giorni per cui, almeno nella Capitale, una parte di questo elettorato potrebbe convergere sull'ex consigliera grillina Virginia Raggi solo perché in passato ha lavorato nello studio del fratello dell'avvocato di Cesare Previti resta, appunto, solo una suggestione per cultori del retroscena psicologico più che politico.
Matteo Renzi vuole vincere le amministrative perché sa benissimo che, in caso contrario, il risultato del referendum costituzionale di ottobre rischierebbe seriamente di essere compromesso. Mentre un successo pieno rappresenterebbe un volano difficilmente arrestabile.