Nuove armi contro il tumore all'ovaio, killer delle donne
Non esistono ancora screening di massa, e le cure –anche se sempre più personalizzate- non riescono a sconfiggerlo del tutto. Ma la ricerca, proprio in questi anni, sta facendo grandi passi avanti
Ogni anno in Italia uccide più di 3.000 donne, facendone ammalare oltre cinquemila, viene diagnosticato quasi sempre quando è già troppo tardi per curarlo efficacemente, ha un indice di sopravvivenza a 5 anni che oscilla tra il 10 e il 43% delle pazienti: il tumore dell’ovaio è uno dei big killer contro i quali la ricerca scientifica - finora - non è riuscita a fare decisivi passi in avanti.
La situazione, però, potrebbe presto cambiare in meglio, e già adesso, grazie a una serie di farmaci e di esami tecnologicamente all’avanguardia, i medici mostrano un cauto ottimismo sulle future prospettive di prevenzione e cura. Si comincia, forse, a intravedere la luce in fondo al tunnel, grazie alla ricerca che si sta concentrando sia sulla possibilità di anticipare il più possibile la diagnosi della malattia e delle possibili recidive, sia su alcune terapie innovative, come gli inibitori dell’enzima PARP efficaci nel tenere sotto controllo la malattia in determinate tipologie di pazienti.
Il problema principale nell’affrontare questo tipo di tumore, infatti, è proprio la grande difficoltà nel formulare una diagnosi precoce: “Il tumore all’ovaio” spiega Maurizio D’Incalci, responsabile del Laboratorio di Farmacologia antitumorale di Humanitas Milano “per molto tempo, dopo la sua comparsa, dà sintomi molto vaghi e non specifici: sintomi che sono comuni nelle donne dopo i 50 anni, o comunque in età di menopausa. Esordisce con gonfiore addominale, bisogno frequente di urinare, dolori, piccole emorragie: sintomatologia che non desta nelle pazienti eccessiva preoccupazione, e pertanto non permette di approfondire e di fare diagnosi precoce”.
Il problema è che poi, quando invece i sintomi peggiorano, spesso è già troppo tardi: e i medici si trovano davanti a una situazione di metastasi diffusa. A quel punto, occorre agire con terapie aggressive e purtroppo senza molte garanzie di successo: “Dopo l’analisi di tantissimi casi” continua D’Incalci “è stato stabilito, da diversi studi internazionali guidati da un team di patologi americani, quali sono le modalità di esordio della malattia. Il tumore si sviluppa inizialmente non nell’ovaio, ma nella tuba. Da lì, le cellule tumorali si muovono fino a entrare nella fimbria (l’ultima parte delle tube di Falloppio, simile a una “frangia” di tessuto, ndr) per poi posizionarsi sull’ovaio. Il fatto è che, simultaneamente, migrano anche verso il peritoneo, e solo in quel momento la malattia inizia a dare sintomi rilevanti. Ed è per questo che di fatto il tumore esordisce, nella maggior parte dei casi già metastatico”.
Proprio però questa novità, cioè il fatto che si sia scoperta la “genesi” di questo tumore nella tuba, ha aperto la via alla ricerca scientifica: grazie a questa “finestra temporale”, che può anche essere di diversi anni, durante la quale il tumore è ancora circoscritto e non ha avuto il tempo di espandersi raggiungendo ovaio e peritoneo potrebbe essere possibile, in un prossimo futuro, fare una diagnosi precoce intercettando alcuni bio marcatori che siano presenti all’inizio della malattia: “Pensiamo di essere sulla strada buona per identificarli” spiega ancora D’Incalci “e sono piuttosto ottimista nel dire che, secondo me, potremmo nel giro di non troppo tempo riuscire a fare questo gigantesco passo in avanti. E dico gigantesco perché l’esperienza ci dice che i casi diagnosticati precocemente hanno ottime possibilità di guarire”.
E ci sono, inoltre, ricerche approfondite su una nuova categoria di farmaci, chiamati PARP-inibitori, che destano molto interesse, dato che si sono già rivelati efficaci nelle pazienti (si ricorderà il caso di Angelina Jolie) con mutazioni dei geni Brca1 e 2, che spesso sono costrette a ricorrere alla chirurgia preventiva facendosi asportare ovaie, tube e utero perché ad altissimo rischio di ammalarsi: “Studi recenti ai quali noi di Humanitas abbiamo contribuito” prosegue il professore “dimostrano che i Parp-inibitori potrebbero essere efficaci anche in altre pazienti, per esempio quelle con tumori che manifestano difetti nel meccanismo di riparazione del DNA, chiamato “homologous recombination repair”. In queste pazienti, una volta effettuati i sei classici cicli di chemioterapia a base di carboplatino e taxolo che si fanno abitualmente dopo l’intervento chirurgico per rimuovere il tumore, vengono somministrati questi nuovi farmaci come terapia di mantenimento. I risultati sono incoraggianti, perché i Parp-inibitori in alcuni casi prolungano l’assenza di malattia fino a diversi anni e permettono quindi di allontanare nel tempo le recidive”.
Già, perché il tempo, di fronte a quello che è uno dei peggiori “big killer” tra i tumori che colpiscono le donne, è una variabile fondamentale: non solo quello della diagnosi, che come già spiegato deve essere il più precoce possibile per assicurare una possibilità di cura efficace, ma anche quello che intercorre tra una recidiva e l’altra: “Il protocollo di cura” continua D’Incalci “prevede che la paziente sia innanzitutto operata, per cercare di rimuovere le lesioni tumorali e metastatiche presenti nella cavità peritoneale. Poi viene avviata a una chemioterapia di sei cicli e nella maggior parte dei casi si ottiene una buona risposta: una riduzione del tumore e a volte una scomparsa apparente. Dico apparente perché purtroppo il tumore recidiva sempre: ma più avanti nel tempo questo accade, più è possibile riprendere la chemioterapia con il carboplatino e ottenere un allungamento della sopravvivenza”.
Con il problema, però, che più avanti si va con la malattia in questo alternarsi di recidive e cure, più la classica chemioterapia perde di efficacia: ecco perché il nuovi Parp-inibitori sono così importanti, e potrebbero costituire un punto di svolta, quantomeno per le pazienti che geneticamente possono beneficiarne.
Ma è possibile che, nell’era della ricerca scientifica e degli screening sempre più avanzati, per il tumore dell’ovaio non esista una possibilità di diagnosi precoce? I ricercatori di Humanitas nutrono un cauto ottimismo: “Stiamo lavorando su uno screening come quelli che si fanno sul colon-retto, sul seno o per il collo dell’utero tramite il pap test” conclude D’Incalci “Ma al momento è ancora presto per poterci sbilanciare su quelli che potrebbero essere i risultati. Credo però che nel giro di non molto tempo avremo dei dati abbastanza sicuri da poter comunicare”.
Nel frattempo, la Fondazione Humanitas per la Ricerca mette in campo tutte le forze possibili, anche coinvolgendo forze e partner esterni: proprio in questo filone si inserisce l’iniziativa portata avanti con Rinascente, che devolve per tutto il mese di aprile il 10% degli acquisti effettuati negli spazi dei Beauty Bar di Piazza Duomo a Milano, Monza e Catania agli studi innovativi per contrastare il tumore dell’ovaio e e del seno.
Intanto, attraverso una nuova tecnica chiamata biopsia liquida, è già possibile monitorare la malattia e cercare di capire come cambia e come si evolve dal punto di vista molecolare, senza ricorrere a esami invasivi: basta un prelievo di sangue per riuscire a identificare tracce del DNA tumorale, sequenziarle e decifrare con alta sensibilità se c’è tumore residuo circolante, se c’è una risposta alla terapia o se occorre modificare il percorso di cura. La ricerca, fortunatamente, non si ferma mai.