Di cosa si muore 12 anni dopo l’infarto
Uno studio italiano ha individuato fattori di rischio differenti per cause di morte diverse. Molte le novità, dall'acido urico alla pressione bassa
Uno studio su 557 pazienti veneti ricoverati per sindrome coronarica acuta (infarto o angina instabile) sono stati seguiti per 12 anni dopo la dimissione con visite periodiche effettuate ogni due anni. Lo scopo dello studio, condotto da Giuseppe Berton, del Dipartimento di Cardiologia dell'Ospedale di Conegliano e dai Colleghi degli ospedali di Bassano del Grappa e di Adria, insieme all'Università di Padova, era verificare la sopravvivenza a lungo termine dei pazienti e verificare quali sono le principali cause di mortalità e quali i fattori clinici a esse associati. Il lavoro è stato pubblicato il mese scorso sull'International Journal of Cardiovascular Research.
Dottor Berton, il lavoro che avete appena pubblicato fa parte dell’ABC Study on Acute Coronary Syndrome. Cos’è l’ABC Study?
ABC Study è l’acronimo di Adria, Bassano, Conegliano e Padova Hospital Study, dove appunto si svolge la ricerca, che è cominciata nel 1995, quando noi ricercatori eravamo poco più che ragazzi. Lo scopo originale dell’ABC Study era seguire la storia naturale dei pazienti con malattia coronarica acuta, in pratica l’infarto di cuore, e studiare il valore prognostico di numerose caratteristiche cliniche basali del paziente per eventi avversi e mortalità. Sono stati studiati numerosi aspetti dell’infarto miocardico, come il processo infiammatorio, la disfunzione endoteliale acuta, la fibrillazione atriale, per nominarne alcuni. Tutti questi aspetti si sono rivelati importanti nel condizionare la mortalità. Al momento sono stati pubblicati 22 lavori scientifici estesi sulle più prestigiose riviste internazionali di Medicina e Cardiologia, e le principali scoperte sono riportate nei testi di Cardiologia inclusi quelli della Harvard Medical School di Boston.
Che cosa ha scoperto il suo gruppo di ricerca nel lavoro che avete appena pubblicato?
Nel corso dei 12 anni di follow up il 51,2% dei pazienti sono morti (15,8% di malattia coronarica o insufficienza cardiaca, il 12,6% di morte improvvisa, l'8,3% per altre malattie vascolari e il 14,5% per cause non cardiovascolari).
Perché questo studio è unico nel suo genere?
La grandissima parte degli studi sull’infarto sono svolti sul breve periodo. Sebbene la sopravvivenza dopo l'infarto sia un concetto ben definito diventa più complicato quando si tiene in conto il tempo. Subito dopo l'infarto la sopravvivenza è fortemente influenzata dall'evento acuto e dalle sue possibili complicazioni. Invece nel lungo periodo, dopo 10-12 anni, la sopravvivenza tende a essere associata più alla progressione della malattia coronarica che all'evento acuto dell'infarto. In accordo con numerosi altri lavori, ci troviamo a constatare che i pazienti con infarto miocardico hanno una prognosi molto severa sia a breve sia a lungo termine.
Quindi di infarto si muore anche a distanza di anni dall'evento acuto?
Possiamo dire che nonostante i progressi fatti nelle cure, gli eventi sfavorevoli dopo l'infarto miocardico rimangono molto frequenti e la morbilità e la mortalità nel lungo periodo sono senz'altro sottostimate. Questo per via della scarsità di studi a lungo termine, per il fatto che spesso le investigazioni vengono fatte su sottopopolazioni di pazienti con infarto molto selezionate e infine perché c'è una grande proporzione di pazienti di cui si perde traccia nel follow up. Uno dei punti di forza di questo lavoro è che ci siamo molto impegnati nel tentativo di non perdere i pazienti e ci siamo riusciti. Al meglio della nostra conoscenza, questo è il primo studio al mondo che ha seguito per così lungo tempo i pazienti dopo l’infarto, sostanzialmente senza perdere alcun paziente nello studio, ed indagando le cause di decesso.
Perché si muore?
I pazienti muoiono per tante cause, non solo cardiache. Noi abbiamo voluto verificare se c'erano variabili cliniche che influenzavano la mortalità. Quando il paziente è entrato in terapia intensiva abbiamo registrato un gran numero di variabili (come età, sesso, fattori di rischio tradizionali, funzione cardiaca, glicemia, indice di massa corporea, estensione dell’infarto e numerosi altri) e ne abbiamo selezionate 33 che apparivano legate alla mortalità. Dentro a questo mare di fattori volevamo cercare se ve n'era qualcuno associato in modo forte e indipendente da altri fattori, detti confondenti, alla mortalità dopo 12 anni.
Quali sono queste variabili?
La più importante di tutte è l'età (l'età media dei pazienti considerati era di 66 anni all'arruolamento), poi c’è la forza contrattile del cuore (funzionamento della pompa cardiaca) e anche l'indice di massa corporea è molto importante. Tra gli altri fattori rilevanti c'è l'avere avuto un vecchio infarto, avere scompenso di cuore (dispnea) e poi, cosa nuovissima, l'albuminuria, ovvero la perdita di albumina attraverso i reni, che è un segno di danno renale ma anche vascolare e un indizio di cattiva prognosi. Infine ha un ruolo molto importante anche il ritardo tra la comparsa dei sintomi e il ricovero, che fa sentire i suoi effetti anche anni dopo l'infarto.
Quali sono le principali cause di morte?
Abbiamo diviso le cause in 4 gruppi: malattia coronarica o scompenso di cuore (il paziente muore in ospedale), morte improvvisa, quindi fuori dall'ospedale, cause vascolari non cardiache (ictus cerebrale, aneurismi...), e infine tutte le altre cause (neoplasie, infiammazioni, malattie infettive). La scoperta più importante è che variabili cliniche diverse sono associate a cause di morte differenti. In pratica non solo abbiamo individuato i fattori di rischio, ma li abbiamo anche associati in modo indipendente alle diverse cause di morte.
Per le diverse cause di morte nel lungo periodo quali sono i fattori che incidono maggiormente?
Tra le cause cardiache di chi muore in ospedale, in sostanza per un aggravamento della coronaropatia, ci sono l'età avanzata, un precedente infarto, lo scompenso di cuore, l'albuminuria, una funzione contrattile depressa, il ritardo nel ricovero. Vi è poi un altro fattore che incide parecchio ed è l'indice di massa corporea, la cui influenza però non si fa sentire solo quando è troppo alto, ovvero nelle persone sovrappeso, ma anche quando è troppo basso, cioè in chi è sottopeso. Insomma gli estremi fanno entrambi male.
E la morte improvvisa?
E' anch'essa associata all'età, a una pompa cardiaca depressa ed al ritardo nel ricovero. Poi vi sono altri due fattori di rischio completamente sconosciuti prima: l'acido urico elevato e la pressione arteriosa troppo bassa. Al contrario la mortalità vascolare non cardiaca è associata all'ipertensione. La pressione arteriosa quindi, come l'indice di massa corporea, è un'altra variabile non lineare. Lo stesso vale per la glicemia: chi ha valori estremi, o troppo alti o troppo bassi, muore di più. L'associazione della glicemia con la mortalità è legata a tutte le cause, quindi possiamo dire che il danno glicemico favorisce la mortalità generale.
Con pazienti di età diverse, magari più giovani, avreste ottenuto risultati diversi?
In tutto il mondo occidentale l'età media dell'infarto è intorno ai 66 anni. Se l'età dell'infarto fosse più bassa ci aspetteremmo una minore mortalità, ma dal punto di vista delle cause resterebbe valido quanto abbiamo trovato nel nostro lavoro. La giovane età è protettiva, mentre tutte le altre variabili sono state analizzate in modo indipendente e hanno circa tutte lo stesso peso indipendentemente dall'età.
Qual è la lezione che si può trarre dal vostro studio?
La mortalità a lungo termine dopo l'infarto è indipendentemente associata con un certo numero di fattori clinici oltre ai tradizionali fattori di rischio. Per esempio il colesterolo, che noi abbiamo ovviamente considerato, ha un ruolo molto meno importate nella prognosi di tanti altri aspetti. Emergono invece altri parametri, alcuni dei quali per la prima volta, che fino ad oggi sono stati sostanzialmente non valutati e che invece meritano di essere considerati con cura come l'albuminuria, la glicemia, pressione alta e bassa, l'acido urico. Il loro ruolo era poco conosciuto finora soprattutto per mancanza di studi a lungo termine.
Come possono incidere i vostri risultati sull'interazione che avviene tra medico e paziente al momento della dimissione dall'ospedale dopo l'infarto?
Abbiamo identificato dei predittori clinici di mortalità a lungo termine che possono aiutare il miglioramento della prognosi, l'educazione dei pazienti e la modificazione del rischio. Informare bene il paziente, per esempio dicendogli "tieni sotto controllo peso, glicemia, pressione, albuminuria ", per dire le cose più semplici, è già una terapia.