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Siria, dopo la guerra il business della ricostruzione

Terminato il conflitto, è iniziata la corsa a ricostruire quasi metà del Paese. Un affare colossale che attira gli attori del conflitto, con Russia, Iran, Libano in prima fila. E l'Europa, frenata finora dalle sanzioni contro Assad, vuole entrare nella ricca partita

Quattrocento miliardi di dollari è la considerevole cifra per ricostruire la Siria devastata da sette anni di guerra, che ha provocato mezzo milioni di morti. L’obiettivo è far tornare nelle loro case almeno una parte dei 12 milioni di profughi fuggiti all’estero (compresi i 970 mila in Europa) o sfollati all’interno del Paese. Un business colossale con in prima fila la Russia, l’Iran e il Libano dei giannizzeri sciiti Hezbollah, che hanno permesso al presidente siriano Bashar al Assad di vincere la guerra.

«La Siria è tornata indietro di 30 anni» spiega a Panorama una fonte diplomatica. «Oltre alle infrastrutture, le fabbriche, gli ospedali, gli impianti elettrici e di estrazione del gas e del petrolio, sono distrutte città come Homs e Raqqa al 90 per cento o Aleppo al 45 per cento». Secondo l’Onu, almeno il 40 per cento del Paese va ricostruito con un investimento di 388 miliardi di dollari, ma altre stime si spingono fino al doppio. 

La Russia, con un «memo» segreto attraverso i canali militari di comunicazione messi in piedi in Siria, ha proposto agli americani di collaborare nella ricostruzione. Donald Trump e Vladimir Putin ne hanno parlato al vertice di Helsinki del 16 luglio. Un’ipotesi sul tavolo è di dividere il paese in zone di influenza, dove sono presenti truppe russe, americane, turche e siriane, come nella Germania alla fine della Seconda Guerra mondiale. I due presidenti torneranno ad affrontare il delicato argomento al G20 di Buenos Aires del 30 novembre. Mosca sta già investendo nel settore petrolifero in Siria, crollato al 5 per cento rispetto ai 375 mila barili di greggio estratti ogni giorno prima della guerra.

«Il Cremlino non vuole o non è in grado di sostenere il grosso della ricostruzione» sottolinea la fonte diplomatica che segue il conflitto siriano. «Per questo fa pressioni sull’Europa e la Banca mondiale per tirare fuori i soldi, ma gli americani frenano». Lo stesso Putin ha ribadito alla cancelliera tedesca Angela Merkel che «bisogna rimettere in piedi i servizi di base in Siria per il rientro dei rifugiati, un grosso fardello per l’Europa». Secondo il ministro della Difesa russo, Sergei Shoigu, «sono state lanciate le basi per il ritorno a casa di un milione di profughi».

L’Unione europea al momento è bloccata dalle sanzioni al regime siriano, che per aggirare l’ostacolo starebbe creando società off-shore con rappresentanti fittizi da coinvolgere nella ricostruzione. Per il momento gli interventi sono «privati» e rappresentano una goccia nell’oceano, come il piano di Aiuto alla chiesa che soffre. «Nel 2018 abbiamo investito quasi 9 milioni di euro nella ricostruzione delle chiese e per aiutare i cristiani a tornare nelle loro case» dichiara Alessandro Monteduro, direttore della Fondazione pontificia.

L’Iran, alleato di ferro di Damasco, ha già stanziato 8 miliardi di dollari per la  ricostruzione ottenendo in cambio la licenza per la terza rete telefonica dei cellulari. Gli Hezbollah, che hanno fornito la carne da cannone prima del decisivo intervento russo, sono in prima fila con un esercito di imprese libanesi. A Damasco si organizzano le fiere per la ricostruzione, che sta coinvolgendo anche la Turchia, principale nemico di Assad oggi alleato dei russi nell’asse antiamericano in Siria. Il 27 ottobre a Istanbul il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha riunito francesi, tedeschi e russi per discutere del futuro della Siria, compresa la ricostruzione.

Imprese turche sono già impegnate nelle aree sotto la tutela delle truppe di Ankara come Al Bab, ma Erdogan punta a ricostruire Aleppo, la seconda città del paese. Imad Moustapha, l’ambasciatore di Assad a Pechino non ha alcun dubbio: «Cina, Russia e Iran hanno sensibilmente aiutato il mio paese durante il conflitto. Per questo devono giocare un ruolo preminente nella rinascita della Siria». In realtà sono solo due i miliardi di dollari cinesi investiti nell’industria siriana. Pechino, però, ha inserito il paese arabo nel grande progetto economico-strategico della nuova via della seta che coinvolge 60 nazioni, con un budget di 1 trilione di dollari. Una trentina di aziende cinesi già opera in Siria, ma i mandarini comunisti sanno che non riusciranno a «colonizzare» Damasco come hanno fatto con alcuni stati africani. Il business economico e politico della ricostruzione coinvolge anche i paesi arabi, padrini della ribellione contro Assad. L’Arabia Saudita e gli Emirati hanno stanziato 100 milioni di dollari per rimettere in piedi Raqqa, l’ex capitale dello Stato islamico, distrutta dai bombardamenti Usa e sotto controllo curdo.


(Articolo pubblicato nel n° 48 di Panorama in edicola dal 14 novembre 2018 con il titolo "Siria, dopo la guerra il business")

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Fausto Biloslavo