Stagisti: giovani carini e... sfruttati
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Stagisti: giovani carini e... sfruttati

Pensano di fare esperienza nel settore dei loro sogni, invece si ritrovano a perdere tempo in mansioni di nessuna utilità, sottopagati o non pagati. I ragazzi che fanno tirocinio nella moda, come in altre realtà, raccontano

Nessun orario. Una competizione agguerritissima, che va ben oltre il lavoro. Un ambiente più asfittico che creativo. Uno stipendio da fame, con cui neanche riuscivo a pagarmi i pasti in ufficio. E, ancora, un’ossessione assoluta per la forma fisica e per ciò che si indossa. Niente deve essere lasciato al caso, pena una gogna che va oltre le ore in ufficio». Parla così Anna S., 25 anni, che il mondo del fashion l’ha lasciato qualche mese fa dopo uno stage in una nota casa di moda fiorentina. «Non ce la facevo più. Ho avuto un esaurimento nervoso. E non perché mi chiedessero cose lontanissime da ciò per cui ero stata assunta, come ordinare il pranzo o portare i caffè, ma perché il clima che si respirava era intollerabile. Praticamente ero sul set de Il Diavolo veste Prada, ma non me n’ero accorta». Il riferimento - che tornerà più volte negli incontri che punteggeranno questo viaggio dietro le quinte nel mondo della moda - è al film cult con Meryl Streep e Anne Hathaway tratto dall’omonimo libro di Lauren Weisberger, incentrato sulla sua esperienza personale di assistente della direttrice di un noto giornale di moda (riconosciuta in Anne Wintour di Vogue).

«Anche io, senza accorgermene, sono entrata nel medesimo tunnel del lusso. Ne sono uscita annientata. Non avevo idea di quando le mie giornate sarebbero iniziate o finite. Non esistevano fine settimana, né feste comandate. Bisognava semplicemente essere grati di essere lì, e di poter lavorare, se così si può dire. Lo stage infatti era completamente gratis e dunque era chiaro che gli unici che potevano permetterselo erano persone con genitori alle spalle in grado di sostenere ogni cosa: dall’affitto alla spesa. Anche per questo lavorare nel mondo della moda, quando ho iniziato io dieci anni fa, era per pochi», ricorda Simonetta S., che alla fine ha rinunciato alle sue ambizioni da designer per fare la direttrice di un negozio di fast fashion e che ai suoi stagisti raccomanda solo una cosa: «Non fatevi sfruttare, non ne vale la pena». Oggi gli stipendi - anche se sempre molto bassi, si va infatti da 500 ai 600 euro per un «full time» - sono garantiti, e gli orari hanno acquisito una formameno flessibile. Fermo restando il cambio di politiche di molte aziende, i sacrifici richiesti sono ancora numerosi. Nonostante questo, il fashion è molto ambito, sia per l’appeal che da sempre lo circonda sia per il crescente bisogno di personale. Ad attestarlo anche il sistema Excelsior, realizzato da Unioncamere e Anpal, che stima come il fabbisogno complessivo tra il 2023 e il 2027 è di 72.900 nuovi occupati.«In questo mondo in perpetuo mutamento, lo stage spesso è un modo per entrare in azienda. Dal mio punto di vista è molto utile nel percorso di formazione di uno studente perché lo mette in contatto con la realtà delle cose», riflette Maria Luisa Frisa, teorica della moda e curatrice, in libreria con I racconti della moda (Einaudi, 280 pagine, 19,50 euro) in cui indaga come la letteratura ha raccontato la forma d’arte più contraddittoria di tutte.

«Spesso» prosegue Frisa «chi si avvicina alla moda lo fa per avere la possibilità di entrare in un universo che sconfina in quello dei sogni, e che viene vissuto come una grande occasione. Sicuramente lo stage deve essere retribuito, ma vorrei anche ricordare che a volte persino ciò che si ritiene come un’esperienza negativa o inutile, può rivelarsi significativa. Molto spesso i ragazzi sono tenuti dai genitori in un mondo ovattato in cui non esistono conflitti, problemi, difficoltà e sconfitte. La vita lavorativa è un mosaico di molte esperienze che vanno affrontate. E bisogna imparare anche questo. Perfino svolgere tutto ciò che in apparenza può apparire umile, può servire. Essere disponibili e sempre reattivi aiuta poi moltissimo». L’atteggiamento con cui ci si approccia allo stage è fondamentale, ma volte le difficoltà si rivelano insormontabili e creano delle tensioni che vanno a pregiudicare fin dall’inizio i rapporti lavorativi. Emblematico il racconto di Antonio C., 28 anni: «Alle diciotto in punto io me ne vado. Mi dovevo occupare del controllo prodotto, che è esattamente ciò che ho studiato. Invece mi hanno messo in un magazzino sterminato a verificare materialmente i capi fallati. Quando ho provato a lamentarmi, mi hanno riso in faccia». Molto presente sui social con i racconti relativi all’esperienza che sta vivendo, Antonio è stato assunto da una notissima azienda di camicie per uno stage di 40 ore settimanali. «Lo stipendio? 450 euro al mese. Poco più di quanto spendo di benzina. La cosa che più mi fa soffrire, però, è l’atteggiamento di sufficienza con cui vengo trattato. Per i dirigenti, ma anche semplicemente per i dipendenti regolari, non conto niente. Una collega con cui sono entrato in confidenza mi ha spiegato che ormai nessuno impara più nemmeno il nome degli stagisti perché tutti sanno che avranno vita breve. Mi ha confessato che il turnover per questi ruoli è centrale: alle risorse umane prendono persone continuamente, promettendo assunzioni che non vengono fatte. Magicamente allo scoccare dei sei mesi provvedono a sostituire il malcapitato che, nel frattempo, è stato parcheggiato a svolgere mansioni da bassa manovalanza. Per fare il mio lavoro non serve un dottorato, che invece ho e mi è stato richiesto durante le selezioni. Eppure mi pagano meno, e questo non è un giudizio di merito, di chi ogni sera fa le pulizie». Ci si trova così di fronte a situazioni molto ingarbugliate. A punti di vista che sostengono la naturale selezione del personale, o che invocano una necessaria supervisione da parte di organi extra-aziendali. «Di certo le imprese che producono abbigliamento hanno subito cambiamenti dovuti al progresso tecnologico. Cambiamenti che hanno avuto conseguenze su tutto. Anche sugli stagisti» riflette Paolo Landi, oggi advisor di marketing e comunicazione, nonché autore del libro Instagram al tramonto (La Nave di Teseo, 11,40 euro).

«In tempi rapidissimi le aziende sono state costrette prima a dotarsi di un sito web, dunque di un e-commerce, e poi correre ad aprire profili sui principali social network. Si è trattato di un adeguamento digitale che ha prodotto profondi mutamenti nelle strutture». Oltre, naturalmente, a una trasformazione tanto dei modi di comunicare la moda quanto di imporre i trend. «Le risorse umane» aggiunge Landi «testano oggi i linguaggi cognitivi quando devono assumere perché c’è sempre meno separazione tra chi lavora con le mani e chi con il cervello. Gli stagisti, che in questo mondo nel passato venivano presi per fare un po’ di tutto, dalle fotocopie alle pianificazioni pubblicitarie, ora sono scelti non in base alle loro competenze o a ciò che hanno studiato, ma indirizzati ai diversi settori dell’impresa per le loro predilezioni. In sintesi, si specializzano prima ancora di immergersi nel mondo dell’impresa. Colpiscono e si fanno largo solo quei ragazzi che di un argomento sanno tutto, che dimostrano di avere una passione per qualcosa, che fanno vedere che sanno di cosa parlano».

La disponibilità ad aiutare e a mettersi in gioco è centrale anche nell’esperienza di Maria Luisa Frisa: «Nella nostra scuola, Design della moda allo Iuav a Venezia, lo stage è a metà percorso della triennale. Diventa così una tappa del percorso formativo e, non di rado, chi viene selezionato poi è anche assunto dall’azienda». Un po’ sfruttando l’ambizione, un po’ il sogno - e nonostante le oggettive difficoltà - la selezione per ottenere uno stage nel mondo del fashion si rivela una corsa a ostacoli. Come racconta Marika T., 500 euro e un contratto semestrale per uno dei leader di mercato nella produzione di occhiali: «Mi hanno reclutato online, dopo una selezione durissima con quattro colloqui. Sono arrivata due mesi fa, e me ne restano quattro. Al momento passo tre giorni in ufficio, e due a casa. Dovevo essere assunta per imparare a gestire le richieste dei buyer e trasferirle ai creativi, mi ritrovo perlopiù in lunghissime riunioni online in cui sono inutile. Sono demoralizzata. Non vorrei fare, come mia sorella che ha 29 anni ed è alla sua terza esperienza, la stagista a vita».

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