Guerra in Libia: il grande errore dell'Italia
Sui rapporti bilaterali con Tripoli e sul perché Roma, avallando la guerra che depose Gheddafi, ha commesso un suicidio geostrategico
Era il 15 aprile 1986. Dopo aver invano chiesto a Italia, Portogallo e Spagna di poter utilizzare il loro spazio aereo per poter bombardare Tripoli, la U.S. Air Force americana decise di lanciare in solitudine l'operazione El Dorado Canyon contro alcune postazioni strategiche in Libia, come l'aereoporto e il complesso di Bāb al-ʿAzīzīyya dove abitava Muhammar Gheddafi con tutta la sua famiglia.
Il fatto è che il colonnello non era più lì. Rimase illeso. Qualcuno, qualcuno che contava, lo aveva avvertito del bombardamento. Quel qualcuno era Bettino Craxi, il presidente del Consiglio italiano già protagonista di un epico no alla consegna agli americani dei terroristi palestinesi dell'Achille Lauro. I rapporti tra l'Italia e la Libia sono racchiusi simbolicamente in quella telefonata del 1986, poche ore prima del blitz aereo americano, rivelata qualche anno più tardi da Giulio Andreotti.
Era la sanzione della politica dei due forni, la vera stella polare del nostro Paese in Medioriente: un po' con Israele, un po' con l'Olp di Arafat, un po' con gli americani, un po' con il cane pazzo, come gli americani chiamavano Gheddafi dopo la sua rivoluzione verde nel 1970. Un po' doppiogiochisti e opportunisti, in fondo, per cultura e vocazione, ma in grado proprio per questo di svolgere un ruolo di mediazione in un Medioriente che, dopo le rivoluzioni arabe, si è completamente dissolto, per responsabilità che sono anche nostre.
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LE TENSIONI E GLI ACCORDI
Sia chiaro. Ci sono stati momenti di tensione anche forti con la Tripoli di Gheddafi. La cacciata di ventimila italiani residenti in Libia dopo la presa del potere del 1970, le richieste libiche affinché l'Italia pagasse i danni del periodo coloniale, la confisca dei beni delle imprese italiane, l'attacco missilistico libico contro Lampedusa del 1986. E ancora: il finanziamento alla Raf e alle Brigate Rosse, Abu Nidal e l'attentato in una discoteca a Berlino, il fume di soldi destinati alle organizzazioni terroristiche palestinesi.
Eppure, nonostante ciò, il sottile filo diplomatico tra Roma e Tripoli non si è mai spezzato, a confermare la vocazione mediterranea della tradizionale politica estera del nostro Paese. A dispetto di chi la governava, fosse anche un cane pazzo o un finanziatore di gruppi terroristici che insanguinarono l'Europa in tutti gli anni 80, la Libia è sempre stata considerata da Roma - chiunque sedesse a Palazzo Chigi - come gli americani consideravano l'America Latina: il cortile di casa, un Paese la cui stabilità - indipendentemente da qualsiasi altra considerazione - era ed e è fondamentale dal punto di vista geostrategico (si pensi solo ai flussi migratori) ma anche energetico (si pensi solo che con il Colonnello in sella importavamo un quinto del petrolio e un decimo del gas del nostro fabbisogno complessivo).
E passi pure che a garantire la stabilità fosse un pazzoide megalomane come Gheddafi, come sta passando in carrozza il fatto che a gestire il dopo-Mubarak in Egitto sia un generale come Al Sisi, baluardo dell'Occidente democratico e liberale che sbatte in galera chiunque, islamista o laico, dica o organizzi qualcosa contro l'esercito. Come disse Franklin Delano Roosvelt a proposito di Somoza, il sanguinario dittatore nicaraguense: Sarà anche un figlio di puttana, ma è il nostro figlio di puttana. La politica estera funziona (male) ma funziona così.
CON PRODI, CON BERLUSCONI
La nostra diplomazia, per tutti gli anni 90, anche dopo la fine della prima Repubblica, non ha mai cambiato linea. Mai. Nemmeno quando a Palazzo Chigi si sono alternati Romano Prodi e Silvio Berlusconi, due uomini che più diversi non potrebbero essere, ma accomunati dai rapporti amichevoli col Colonnello. Il disgelo formale è iniziato infatti con il comunicato congiunto Dini-Mountasser del 1998, quando al governo c'era l'ex leader dell'Ulivo. Fu proseguito con il Trattato di Amicizia del 2004 che pose fine al Giorno della Vendetta in Libia quando al governo c'era il Cavaliere. E infine concluso con il trattato di Bengasi del 2009, in base al quale Tripoli si impegnava a combattere l'immigrazione clandestina dalle sue coste e noi offrivamo a Gheddafi 5 miliardi di euro per realizzare infrastrutture nel Paese nordafricano come compensazione per l'occupazione militare. Tutto quadrava: la stabilità della Libia - partner politico e commerciale, per certi versi imbarazzante - veniva prima di qualsiasi altra considerazione sui diritti umani nel Paese nordafricano. Sinistra e destra, da questo punto di vista, erano perfettamente d'accordo.
UNA GUERRA CONTRO I NOSTRI INTERESSI
La storia recente segna una cesura netta col passato. Primo Paese Ue per esportazioni di armi nel decennio che ha preceduto la caduta del colonnello, l'Italia è come rimasta schiacciata dalla vorace accelerazione voluta da francesi e americani nel 2011, all'indomani delle rivoluzioni arabe. Siamo stati presi in contropiede e, schiacciati dalla crisi, dalla corsa dello spread, dai problemi interni, abbiamo acconsentito a partecipare a una guerra pianificata in modo frettoloso che non solo ci ha relegati in un ruolo marginale in Libia ma ci ha anche illusi sulla transizione pacifica post-Gheddafi. Non volevamo certo rischiare di rimanere fuori dal gran tavolo della spartizione postbellica che (illudendoci) si sarebbe aperto di lì a poco! Come siamo arrivati a tutto questo lo ha spiegato molto bene Romano Prodiin un'intervista al Fatto che non ha mancato di far discutere. «Si tratta di un errore nostro. Delle potenze occidentali. La guerra in Libia del 2011 fu voluta dai francesi per scopi che non lo so… certamente accanto al desiderio di ristabilire i diritti umani c’erano anche interessi economici, diciamo così». E l’Italia? «L’Italia ha addirittura pagato per fare una guerra contro i propri interessi». Il risultato è sotto gli occhi di tutti.