Strage in Bangladesh. Quelle magliette low-cost che costano troppo sangue
Sono soprattutto europee le multinazionali che si rifornivano dalla fabbrica crollata a Dacca, uccidendo 380 persone. E spunta anche la Benetton
Quando mercoledì scorso il Rana Plaza, un edificio di otto piani a Savar, nella profonda periferia di Dacca in Bangladesh, si è sbriciolato come un biscotto in seguito a un incendio il mondo ha assistito impotente all'ennesima strage di uomini, donne e bambini. Erano tutti lavoratori del settore tessile. Le vittime riconosciute finora sono 380, ma mancano all'appello decine e decine di persone. Inutili gli scavi per trovare qualche sopravvissuto. Le macerie hanno coperto tutto, con una rapidità terrificante.
In quel palazzo fatiscente adibito a fabbrica di magliette low-cost lavoravano più di 3.000 persone. Il Bangladesh è il secondo esportatore tessile asiatico dopo la Cina, e il business delle T-Shirts impiega circa 4 milioni di lavoratori e pesa per l'80 per cento del prodotto interno lordo del Paese.
Ma, come evidenzia un'inchiesta condotta in prima battuta dal settimanale tedesco Der Spiegel, quei morti sulla coscienza non ce l'hanno solo i proprietari dell'azienda che è crollata con le mura del suo palazzo, ma anche e soprattutto l'Europa, che - pur sapendo - ha fatto finta di niente.
Tutti i Paesi del club dei 27, nessuno escluso, si approvvigionava regolarmente di T-shirts a basso costo per la vendita al dettaglio delle grandi catene del Vecchio Continente. E il primo a puntare il dito contro "un assassinio nel nome del profitto" è Ramesch Chandra, il leader del sindacato dei lavoratori tessili di Dacca, che così ha commentato il più grande disastro industriale nella storia del Bangladesh, sostenendo che "i lavoratori hanno pagato con le loro vite per permettere ai consumatori di comprare magliette a prezzi stracciati".
Tra i clienti di Rana Plaza ci sono diverse catene tedesche, come la Phantom Apparels Ltd e la NKD, un'azienda che vende al dettaglio solo prodotti tessili "discount". Nel 2012 la NKD si è lamentata con i venditori del Bangladesh, ma non per le condizioni di lavoro cui erano sottoposti i dipendenti. Non per l'assenza di uscite di emergenza nel palazzo che è crollato, non per l'impiego di donne e bambini con turni dalle 12 alle 15 ore giornaliere. Ma semplicemente per la qualità del prodotto finito, che non corrispondeva agli standard richiesti.
Un'altra compagnia è la Ether Tex, che vende magliette e prodotti tessili sul mercato tedesco, oltre a importare per le catene low-cost Kik e C&A. E poi c'è l'Irlanda, che acquista per il marchio Primark praticamente solo vestiti confezionati a Dacca. Curioso il fatto che proprio il sito web di Primark abbia una sezione interamente dedicata alla "condotta etica", dove si legge che "I fornitori della compagnia devono attenersi a un severo codice di condotta" e che "deve essere garantito un ambiente di lavoro igienicamente sano", oltre all'imperativo "di mettere in campo tutte le misure necessarie per prevenire incidenti". Già, parole che spesso si sentono pronunciare in Europa, ma che poi vengono dimenticate, nel momento in cui i vestiti provenienti dall'Asia vengono acquistati a prezzi ridicoli.
E dalle macerie di Rana Plaza spunta il marchio italiano di Benetton, anche se l'azienda di Treviso si appresta a smentire via Twitter di avere rapporti commerciali con l'industria di Savar. Poi, però, ammette di aver ricevuto un unico ordine e che, dopo il disastro, il Rana Plaza è stato depennato dalla lista dei fornitori. Nella lista delle aziende italiane in affari con il Bangladesh figurano anche la Itd Srl, la De Blasio Spa, Essenza Spa e la Pellegrini Aec Srl. Per la Francia spicca il colosso Carrefour.
Non mancano nemmeno le spagnole, con la linea Mango e i grandi magazzini di El Corte Ingles. E poi la Bon Marche britannica, la canadese Joe Fresh e le americane Cato e WalMart. Insomma, quel palazzo che crollando ha falcidiato centinaia di lavoratori, soprattutto donne, rappresentava il cuore pulsante del business delle più grandi multinazionali del mondo, molte delle quali con sede in Europa.
Un'Europa che - solitamente molto attenta (almeno a parole) alle condizioni dei lavoratori oltre i suoi confini - sembra però aver rivolto lo sguardo altrove, pur di permettere il fiorire del mercato delle T-shirts a basso costo, delle quali i suoi cittadini, soprattutto in tempi di crisi, sono affamati. E' vero, il prezzo in termini di euro e dollari è sicuramente molto conveniente, ma non si può certo dire la stessa cosa se si ragiona in termini di sangue e vite umane.