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Mahmud Hams/AFP/Getty Images
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La Striscia di Gaza dove il processo di pace non è mai iniziato

Tra Israele e Palestina si muore perché gli interessi in Medio Oriente sono numerosi e diversi. Tra Iran, paesi arabi, gli Usa e l'ipocrita Europa

"È mia convinzione che il mondo abbia perso il centro, che la gente vada in giro con un’ideologia o una fede religiosa incontestabile dagli altri e per quella sia pronta a calpestare chiunque” sostiene Etgar Keret, brillante scrittore israeliano e critico severo delle mille contraddizioni che vive il suo paese. Il riferimento è alla terribile giornata di ieri, quando da un lato si festeggiava l’insediamento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme e dall’altro si lasciavano oltre cinquanta morti ammazzati dai cecchini lungo il confine polveroso tra Israele e Gaza, teatro ormai da settimane di aspri scontri tra i giovani indottrinati da Hamas – che controlla politicamente e militarmente la Striscia - e i soldati israeliani con licenza di sparare a vista.

Questo scenario, sebbene non nuovo per quelle coordinate geografiche, racconta di due Paesi - uno per la verità mai nato - che restano ostaggio della propria storia e che, come dice Keret, hanno lasciato prevalere l’ideologia sulla ragione. Nell’intervista rilasciata al Corriere della Sera lo scrittore definisce “surreale” la giornata di ieri, per il fatto che durante la cerimonia a Gerusalemme l’ambasciatore americano dal palco abbia dichiarato che quel giorno segnava “il vero inizio del processo di pace”. Di pace, in effetti, come abbiamo scritto non se ne vede traccia e, anzi, c’è già chi ha segnato questa data sul calendario come l’inizio di una nuova Intifada o peggio (di sicuro non aiutano le promesse di far scorrere del sangue da parte di Hamas né gli appelli al Jihad da parte del leader di Al qaeda, Ayman Al Zawahiri).

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La storia del conflitto israelo-palestinese si è macchiato di pagine peggiori in questi settant’anni e, tuttavia, le tragedie che hanno preceduto questo maggio di sangue non hanno aiutato né sembrano aver insegnato alcunché alle parti. In definitiva, lungo le sterpaglie e tra le colline che separano Gaza City da Sderot, Erez, Ashkelon e dal resto di Israele, i pattugliamenti quotidiani dei soldati di Gerusalemme raccontano da sempre di incessanti scambi di artiglieria, di reciproche provocazioni e di sporadici scontri tra le opposte fazioni, così come del costante costruire di tunnel sotterranei da parte dei miliziani di Hamas, che vengono regolarmente distrutti dalle truppe israeliane in una sorta di circolo vizioso dal quale nessuno sembra voler o poter uscire.

Al punto che gli stessi militari che pattugliano il confine affermano con rassegnazione che, spesso, non si prodigano neanche nel demolire gli avamposti di Hamas dai quali sbucano i miliziani per tentare sortite in territorio israeliano o per appostarsi di notte e sparare al primo soldato a portata di tiro: “A che serve? Tanto il giorno dopo che li abbiamo distrutti, li ricostruiscono daccapo”. In queste parole apparentemente banali c’è il senso profondo di disincanto, smarrimento e percezioni dell’inutilità di ogni attività posta a difesa della pace.   

Perché la deterrenza, in fondo - cioè la politica di difesa che l’esercito di Israele ha adottato come principio e come modus operandi - funziona e protegge quanto un argine marino contro le onde. E tuttavia, quando c’è una tempesta, nulla può arrestarle. Così, nei periodi in cui Hamas negozia sottobanco con i suoi alleati nella regione e finché mantiene un basso profilo durante i colloqui con la controparte Al Fatah - che domina la West Bank ovvero la Cisgiordania -, questo argine militare è in grado di funzionare.

Quando invece la leadership palestinese nella Striscia intende offrire prove di forza (a scapito di tutti), ecco che il metodo israeliano s’inceppa e la gente muore.

Al netto di tutto ciò, è oggi ipocrita l’indignazione dell’Occidente (leggi Europa), che si fa giudicante a parole e si scopre in difesa della Palestina solo in simili tragiche circostanze ma che tuttavia, nei fatti, non promuove mai alcun processo di pace. È altrettanto facile giudicare negativamente la presidenza Trump e le politiche che discendono dalla sua amministrazione, per una serie di ragioni sulle quali non è il caso qui di dilungarci.

Eppure, proprio gli Stati Uniti rappresentano l’unico paese che, almeno da Oslo in poi, ha promosso concretamente una road map per la pace. Che poi non vi sia riuscito o abbia sbagliato completamente metodo, questo è un altro discorso. Ma affermare che lo spostamento dell’ambasciata da Tel aviv a Gerusalemme è la ragione per la quale sono morti quasi sessanta giovani e giovanissimi palestinesi, è non soltanto insincero ma del tutto errato.

Tra Israele e Palestina si muore anche perché gli interessi in Medio Oriente sono numerosi e diversi. L’Iran, ad esempio, ha iniziato a finanziare Hamas (oltre che Hezbollah) nell’ottica di perseguire la sua politica di egemonia sulla regione, in contrapposizione ai sauditi - che invece hanno sensibilmente ridotto i finanziamenti ai palestinesi - e soprattutto a Israele, che resta la spina nel fianco.

A parti rovesciate, Israele non perde occasione per provocare una reazione iraniana, che regolarmente non si fa attendere. Così, la Striscia di Gaza diventa uno strumento di pressione dell’Iran contro Israele, in attesa di una mossa falsa di Gerusalemme della quale approfittare. Israele ha molte colpe, ma non quella di essere chiaro sui propri obiettivi e sui limiti invalicabili della propria tolleranza. Questa è anche la sua principale debolezza, ed è per questo che è caduto nella trappola iraniana, perfettamente consapevole (come Hamas) che a ogni minaccia Israele risponde con la forza e che a ogni chiamata Hamas è pronto a sacrificare la sua gente, forte di “una fede religiosa incontestabile dagli altri” per la quale è “pronta a calpestare chiunque”.
Inutile dire che quanto accaduto oggi non porta da nessuna parte e, al contempo, ci prepara al veder riaccadere ancora e ancora simili giornate.

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Luciano Tirinnanzi