Lo "stupro" di Reyhaneh
L'impiccagione della donna in Iran porta a riflettere sul valore della vita
Era meglio morire stuprata dal proprio aggressore o impiccata, dopo 7 anni di carcere, per averlo denunciato?
Che valore ha la vita di una donna in Iran o in un altro paese integralista musulmano?
Il caso della giovane Reyhaneh, condannata alla pena di morte, nella notte del 25 ottobre ed impiccata perché accusata di aver ucciso (con premeditazione) un uomo che voleva stuprarla, deve imporci un’attenta ed ulteriore riflessione sulla violenza nei confronti delle donne, orientando la consueta indignazione anche in una direzione diversa dalla mera riprovazione del gesto.
Perché nel caso di specie la vittima è stata punita tre volte: la prima volta con la violazione della sua intimità, la seconda volta con la condanna a morte comminata dal sistema giudiziario del suo paese, la terza per effetto della deliberata volontà dei parenti dello stupratore di esigerne la morte, posto che il loro perdono l’avrebbe salvata dalla forca.
Anche se è vero che senza le carte processuali non posso stimare se il giudizio sia stato condotto a norma di legge locale o meno - né io potrei certamente mai capire certe dinamiche che regolano ordinamenti giuridici così influenzati dalla religione, dalla sharia o comunque da arcaiche forme di giustizia - rimane il fatto che l’esecuzione capitale della giovane donna mi ha posto davanti a domande che esulano dalle valutazioni di alta politica o di rapporto fra culture.
Mi sono banalmente chiesta il motivo per cui, in luogo di progredire verso la piena parificazione della donna, anche nella dignità processuale, ogni giorno affondiamo nel medioevo, nell’ortodosso Iran come altrove.
Dalla Cina in cui l’adultera viene spogliata e picchiata per strada in mezzo ai passanti agli orrori che leggiamo in India, dove normative apparentemente più repressive e campagne mediatiche e popolari non fermano le violenze, condotte su donne sempre più giovani, financo bambine violate e uccise.
Dalle sentenze della Cassazione che incolpano la donna vittima di violenza per la mìse indossata (i jeans nel caso di specie) allo stesso oscurantista messaggio che inverte i ruoli di responsabilità, affisso alle porte della Chiesa di Lerici come vademecum ai fedeli o distribuito nel ‘Libello Rosa’ – come vademecum ai turisti della Città Eterna- per mettere in guardia le donne da violenze in metropolitana in modo da poter dire “io avevo avvertito”.
Povera Reyhaneh, aggrappata alla vita con tutte le forze, lottatrice indefessa contro il proprio carnefice in carne ed ossa, impotente però nei confronti di un giudice con il martelletto (ammesso che in Iran lo usino sugli scranni delle aule di giustizia penale), ancor più sola davanti al ‘perdono’ dei parenti della vittima, metronomo assurdo, a mio avviso, che detta i ritmi della vita e della morte in quel contesto giudiziario.
C’è un dettaglio dell’esecuzione che mi ha compito particolarmente: secondo quanto riferito da alcune fonti, il piccolo figlio di Reyhaned, avrebbe tolto lo sgabello dai piedi della madre.
Barbarie nella barbarie.
Sgomento che si aggiunge all’incredulità.
Gli appelli lanciati dall’intera comunità internazionale, compreso Papa Francesco, sono rimasti vani ed inascoltati.
Il Ministro degli Esteri italiano, Federica Mogherini, ha commentato: ‘Reyhaneh è stata uccisa due volte, prima dallo stupratore e poi dall’indifferenza di un sistema che non ha ascoltato i tanti appelli’.
Purtroppo – come ho scritto - è stata uccisa tre volte e in giorni come questi non sono nelle condizioni di credere ad un’evoluzione virtuosa della mentalità del mondo, occidentale o islamico, ateo o terzomondista.
Purtroppo la donna continua a non conoscere giustizia e tutti i parametri statistici attestano un incremento delle violenze e dei soprusi e un proliferare di giustificazioni sempre più fantasiose alle violazioni della sua intimità.
Mi rimane solo l’indignazione, la rabbia e l’impotenza.