Sudan: storia di Noura e dello stupro di Stato
Sposata al cugino a soli 16 anni, si ribella e lo uccide. Condannata in appello alla pena capitale, poi il tribunale le accorda cinque anni di carcere
La storia di Noura è drammatica, ma purtroppo non per questo diversa da tante altre storie di giovani donne, spesso bambine, costrette a subire violenze. Anche dallo Stato che dovrebbe invece proteggerle. Noura Hussein Hammad, 19 anni, è nata e vissuta in Sudan, e diversi anni fa è stata data in moglie a un uomo più anziano di lei. Il marito l’ha stuprata più volte ma, l’ultima, lei si è ribellata e lo ha ucciso. E per questo in primo grado è stata condannata a morte per impiccagione, poi dopo mesi grazie alla pressione internazionale fatta di proteste e petizioni in suo favore, la pena è stata annullata passato a cinque anni di carcere. Ora, la speranza mai persa di una grazia ritorna nelle mani dei giudici della Corte Suprema.
Noura, la storia e la condanna
Il tribunale del Sudan inizialmente non aveva concesso a Noura alcuna attenuante per aver ucciso il marito che la violentava, perché quei giudici sono coloro che applicano quella legge sudanese che autorizza i matrimoni di bambini che hanno compiuto anche solo 10 anni.
Così, nel 2012, appena 13enne, Noura si sposa con il solo rito religioso a un suo parente stretto, un cugino. Una zia, per due anni, riesce a evitare che i due si incontrino per la consueta “consumazione del matrimonio”, ma poi terminati gli studi, la ragazzina (ormai 16enne) viene forzata a sposarsi legalmente con lo stesso uomo e da qui inizia il suo vero calvario.
Obbligata dal padre e dal marito a trasferirsi a casa di quest’ultimo, Noura viene cotretta ad avere rapporti con la violenza, il marito-padrone si serve anche dell’aiuto di due suoi fratelli e di un cugino per ottenere ciò che vuole. La giovane allora si ribella e durante la violenza riesce a raggiungere un coltello in cucina e uccide l'uomo. Sconvolta, torna alla sua casa d'origine, ma il padre la consegna alla polizia. L'incubo prosegue. Il processo si svolge nel luglio dello stesso anno: il tribunale di Omdurman la ritiene colpevole di omicidio volontario e, secondo la legge, non le riconosce lo stupro coniugale.
Dopo mesi di reclusione poi arriva la condanna alla pena di morte e per la giovane sposa sembra non esserci più niente da fare se non sperare nella clemenza dei giudici. I legali, infatti, per tentare di salvarla, avevano anche offerto alla famiglia del marito-violentatore un risarcimento in denaro, ma il rifiuto dei parenti è netto. Poi, come fa sapere Antonella Napoli, presidente di Italians for Darfur, l'organizzazione che ha raccolto un milione e 400 mila firme in calce ad un appello per salvare la giovane, l'impiccagione viene tramutata in cinque anni di detenzione. Noura è salva, ancora in prigione ma salva.
Il sostegno per salvarla
Tanti però sono e restano i sostenitori di Noura, a partire da Amnesty International che chiede un nuovo processo: “Il 2 maggio 2017, i tre uomini hanno bloccato Noura per consentire al marito lo stupro. Il giorno dopo, l’uomo ha tentato di violentarla di nuovo, ma lei è riuscita a scappare in cucina. Ha impugnato un coltello e nella colluttazione che è seguita ha colpito a morte l’uomo”. Ora per tentare di ottenere la grazia occorre continuare a raccogliere le firme per una nuova petizione (#Joustice for Noura)andando al sito change.org, la popolare piattaforma attiva su temi politico-sociali.
(Questo post è stato pubblicato il 15 maggio 2018 e aggiornato il 28 giugno 2018)
#NouraHussein aveva 13 anni quando fu destinata a sposarsi con un suo cugino in #Sudan, 2 anni dopo per difendersi dalle violenze lo accoltella. Un tribunale la condanna a morte. Se appello non dovesse ribaltare verdetto sarà decapitata. Facciamo sentire che non è sola #SaveNoura pic.twitter.com/a3Nuu0xnGw
— Antonella Napoli (@AntonellaNapoli) 10 maggio 2018
Mentre si fa sempre più numerosa la folla a favore della ragazza, che con cartelli e manifesti protestava contro il verdetto, in Italia si è mobilitata anche la presidente di Italians for Darfur, Antonella di Napoli, oltre alla Farnesina, per chiedere a Omar Hassan al Bashir, presidente del Sudan, la grazia e l'immediata liberazione della giovane.