Vi racconto come cresce chi sopravvive a un agguato di mafia
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Vi racconto come cresce chi sopravvive a un agguato di mafia

Come i fratellini della strage di Palagiano, nel Tarantino, che hanno finto di essere morti per salvarsi, rannicchiati tra i sedili dell’auto, una Matiz rossa diventata la tomba della loro mamma e del piccolo Mimmo, nemmeno 3 anni, ucciso sulle gambe del vero obiettivo dei sicari

È la pagina più scabrosa nella storia delle spietate esecuzioni che i killer delle mafie hanno messo in atto. Segna il destino di tanti bambini, testimoni dell’orrore. Alcuni, da piccolissimi, hanno assistito all’agguato e sono rimasti orfani di un genitore. Come i fratellini della strage di Palagiano, nel Tarantino, che hanno finto di essere morti per salvarsi, rannicchiati tra i sedili dell’auto, una Matiz rossa diventata la tomba della loro mamma e del piccolo Mimmo, nemmeno 3 anni, ucciso sulle gambe del vero obiettivo dei sicari. Dopo quel raid del 17 marzo scorso, Panorama ha incontrato i sopravvissuti di altri agguati del passato, per capire come hanno affrontato il trauma. Ex bambini come Alessandra, Anita e Vincenzo, Annamaria e Ciro hanno visto colpire la propria famiglia e usurpare i sogni dell’infanzia. Dentro, non resta solo il dolore che ciascuno ha dovuto elaborare in prima persona, con esiti diversi. Ma spesso anche la rabbia per non avere ricevuto né aiuto né giustizia dallo Stato. Solo dal 2008 c’è la fondazione Polis, strumento operativo della Regione Campania, e unica struttura nel Sud, per l’aiuto alle vittime innocenti della criminalità.

Alessandra Clemente, occhi azzurri come lame. Ricorda la sequenza di morte: "Sento un rumore. Mi affaccio al balcone. Vedo mamma a terra. Urlo...". Quaranta proiettili sparati a Salita Arenella. Sulla traiettoria di una pallottola vagante, Silvia Ruotolo con l’altro figlio Francesco, di appena 5 anni. Ed è come se il tempo si fosse fermato l’11 giugno 1997. Imponendo un presente permanente anche nel racconto. Dice Alessandra: "Avevo 10 anni e provavo un dolore strano. Come se fosse un film". Alessandra ha cominciato a reagire alla violenza scrivendo un tema nel quale immaginava un gambero che andava avanti anziché all’indietro. "Papà mi ha insegnato a camminare. Lui non si è risposato, non ha permesso a nessuno di prendere il posto di mamma, e dalla tragedia ha iniziato a chiamare nonna sua madre davanti a me e Francesco" per non rinnovare la ferita. "Sin dall’estate del ’97 è stata sua l’idea di creare una fondazione e darle il nome di mamma. L’iniziativa ha significato avere un ruolo attivo nel dolore". Condannati all’ergastolo tutti i killer. "Nella mia crescita è stato fondamentale anche quando la mia scuola ha dedicato un’aula a mia madre. Al liceo soffrivo perché non si parlava di una mia grande paura, la camorra. Incontrare bimbe con storie simili mi ha aiutato a non sentirmi diversa, partecipare al 21 marzo di Libera (l’organizzazione che promuove la lotta alle mafie nella società civile, ndr) a superare un grande peso". Nel 2009, sul palco con don Luigi Ciotti: "Prima, non mi confidavo nemmeno con le compagne di studi a giurisprudenza". Alessandra Clemente oggi è assessore alle Politiche giovanili. Rivela nel suo ufficio: "Ho aspettato ad accettare l’incarico, pensando che Napoli non meritasse il mio impegno. Ma è un ulteriore senso che potrò dare per essere parte del cambiamento. Ho una sensibilità scomoda, ma è diventata il mio punto di forza".

Anita e Vincenzo De Rosa, fratelli dai destini incrociati. Lui aveva 15 anni nel 1982 e quel 23 ottobre aveva appena salutato il papà. Lei, 12 anni, era nella macelleria di fronte: "Mi disse di aspettare". Sono passati 32 anni, e la voce di entrambi trema ancora nel ricordare l’assalto a Giugliano, in Campania. "Per proteggermi dagli spari" dice Anita "mi spinsero sotto il bancone, ma poi mi ritrovai da sola accanto al corpo di papà. Capii che era morto". Un medico stimato, Antonio De Rosa. Vittima di uno scambio di persona. "Ma un’altra tragedia venne dopo" ricorda Anita. "Mamma si ammalò di depressione, restò a letto per sei mesi. Poi si alzò, ma sveniva, dovevo soccorrerla". Piange Anita, come mai prima. "In quei momenti parlare del dolore sarebbe stato persino superfluo: mi sono aggrappata totalmente a lei" dice incrociando lo sguardo della madre Concetta. "A parte pochi parenti, la mia famiglia si è ritrovata da sola. Attorno solo omertà e paura". Aggiunge Vincenzo: "È stata dura crescere senza una guida. E senza giustizia. Il fascicolo fu frettolosamente chiuso per insufficienza di prove, ma il vero obiettivo dei killer venne ucciso poco dopo. Lo Stato dov’era?". Vincenzo De Rosa, come primo atto da avvocato, ha ricomposto pezzi di verità giudiziaria. Il desiderio: ottenere per lui il riconoscimento di vittima della camorra. "Forse, solo un pentito potrebbe far riaprire il caso".

Annamaria Torre, un ciclone umano. Non ha perduto la dolcezza dopo l’agguato contro suo padre Marcello Torre, avvocato e sindaco di Pagani. Un’esecuzione, l’11 dicembre 1980, un "segnale" anche nei confronti degli altri amministratori. "Non era un eroe, era un uomo giusto. Fu ucciso per non aver favorito i clan negli appalti post terremoto. E io, che udii gli spari, fui la prima ad accorrere sul luogo dell’agguato, con il mio cagnolino". A soli 15 anni. "Poi ho rimosso tutto, anche i soccorsi. È stata un’elaborazione lenta" dice Annamaria. "Quell’anno arrivai a pesare 38 chili" dice oggi a 47 anni, funzionario Asl. "Non c’era sostegno, e infatti mio fratello non resse al dolore e morì. Io fui aiutata da uno zio psichiatra. Nel 1982, quando fu costituita un’associazione dedicata a mio padre, anche grazie al sociologo Amato Lamberti, nessuno capiva il perché". Una pausa. "Ho sentito tutto il peso della solitudine. Perché nessun altro debba subire l’abbandono, faccio parte di Libera memoria: accompagno le altre vittime in tribunale. Per papà ho atteso giustizia per quasi 30 anni e poi è arrivata: uno del commando si pentì incrociando il mio sguardo in udienza. Con l’Ordine degli avvocati, la mia famiglia si era costituita parte civile". Sospira Annamaria: "Mi sono sposata a 18 anni, ho avuto due figli. Loro mi hanno dato la forza".

Ciro Esposito, poliziotto come il fratello che fu ucciso. All’età di 16 anni, la tragedia ad Afragola. "Morì a 25 anni per proteggere papà nella tabaccheria". La rapina, il 26 gennaio 1980, è ricordata da Ciro indicando la posizione e i movimenti di ciascuno. "La scena durò 20 secondi e io rimasi immobile". Le urla del genitore, il bandito disarmato dal fratello che provò a scappare. "Ma il complice, senza dire una parola, impugnò la pistola". Antonio Esposito, medaglia d’oro al valore civile, fu ammazzato da banditi rimasti senza un nome, anche se Ciro ne aveva visto il volto. "Fu duro anche collaborare alle indagini, i carabinieri sono venuti a prelevarmi di notte già prima dei funerali". Chiuso in casa per tre mesi, smise di giocare a calcio e lasciò la scuola. "Fu l’altro mio fratello, il sacerdote che morì due anni dopo, ad aiutarmi a capire che tutti si è messi alla prova davanti al Signore. Ce l’ho fatta grazie alla fede". Ciro rivela: "Quando entrai in polizia fu per la voglia di fare un po’ il giustiziere. Poi mi sono reso conto che la vera giustizia è quella divina e ognuno deve fare i conti con se stesso. Oggi non voglio neppure più sapere chi sia stato a uccidere mio fratello. Sacerdoti come don Tonino Palmese, conosciuto cinque anni fa, mi hanno cambiato e aiutato a capire che tenere dentro la sofferenza porta in un vicolo cieco".

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Maria Pirro