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Truccate, hijabiste e fondamentaliste

Realtà e illusoria trasfigurazione occidentale in salsa orientalistca. L'hijab è un'involuzione dei costumi teorizzata e perseguita dagli islamisti

In queste ultime settimane si sono susseguite diverse notizie degne di chiudere l’estate della polemica sul burkini.

Le notizie riguardano tutte hijabiste (neologismo statunitense che indica donne musulmane con l’hijab, ovvero il foulard che copre la testa) vere o finte che spiegano entusiasticamente quanto è bello portare il velo.

La prima è una attrice tedesca bionda in un promo realizzato con il contributo dell’Unesco che, sfoggiando l’hijab, afferma: “le donne turche indossano il velo. Anche io! È bellissimo!”.

Negli stessi giorni, la stilista Anniesa Hasibuan, musulmana, ha presentato la sua collezione alla New York Fashion Week, facendo indossare a tutte le modelle l’hijab.
Repubblicariferisce che la designer “ha ricevuto una standing ovation quando è uscita in passerella, ovviamente velata, per il coraggio di proporre una visione moderna della moda che segue i precetti”.

Poco tempo dopo la rivista Playboyha lanciatoNoor Tagouri, una ventenne reporter musulmana velata. Nel mentre, circola in rete una petizione – che Apple sta prendendo in considerazione – per aggiungere emoticon velato, “per meglio rappresentare la realtà di milioni di donne islamiche orgogliose di portare il velo”.  

Premetto che non ho nulla contro il velo (a patto che non sia integrale), se una donna lo porta per sua scelta nella convinzione che cosi facendo rispetta la propria fede.

Ciò però non mi impedisce di ricordare che, da un punto di vista storico-sociale, esso rappresenta un’involuzione dei costumi esplicitamente teorizzata e perseguita dall’agenda dei movimenti islamisti.

Cosi come non mi impedisce di fare notare che l'immaginario occidentale, in quanto immaginario, si nutre di illusioni: non ho mai visto una donna velata con metà dei riccioli fuori dal copricapo, una profonda scollatura e uno spacco vertiginoso come nel caso dell’attrice tedesca, ad esclusione delle baiadere di Hollywood.

E di certo non ci vuole nessun coraggio, oggi come oggi, per proporre una versione di moda “in linea con i precetti coranici”.

Il coraggio semmai, ci vuole per indossare un paio di pantaloncini, visto che a Istanbul una donna è stata aggredita dal conducente di un mezzo pubblico proprio perché li indossava (episodi simili si sono pure verificati in Francia).

Quanto alla ragazza velata in posa su Playboy, che ammicca con labbra protruse e uno strato di trucco spesso diversi centimetri, non ci vuole molto per intuire che si tratta di un modello poco islamicamente corretto e in pieno contrasto con la modestia e l'elevazione spirituale che, secondo le sue promotrici, dovrebbe rappresentare il velo.

È interessante mettere a confronto la realtà e la sua illusoria trasfigurazione occidentale in salsa orientalistica.

La realtà non è fatta dalle signore del Golfo che fanno shopping per le vie delle capitali occidentali o dai “Rich kids of Tehran” che sfoggiano la propria ricchezza sui social.

La realtà del mondo arabo-islamico è fatta di villaggi rurali, baraccopoli, quartieri fatiscenti dove povertà e analfabetismo sono endemici e in cui milioni di donne musulmane portano veli dozzinali – sempre più spesso integrali - in tessuti sintetici dai colori scuri importati dalla Cina. E tutto questo ammiccare con veli trasparenti e paillettes, oltre a rivolgersi a ristrette minoranze benestanti che al velo si sono adeguate perché lo impone la legge, la moda o la pressione sociale, serve solo a indorare la pillola di un copricapo che – urge ricordarlo per l’ennesima volta – è stato reintrodotto con una propaganda capillare dai movimenti islamisti a partire dagli anni settanta.

Tutti gli editoriali, articoli, interviste che omettono questo piccolo particolare, e che anzi presentano il velo come “un mezzo di emancipazione delle donne musulmane” invece di illustrare l’involuzione dei costumi attuata in società musulmane che – almeno nel contesto urbano – avevano abbandonato il velo già agli inizi del novecento, non è altro che un ulteriore aiuto alla propaganda dell’Islam politico, che irrimediabilmente, una volta al potere, finisce per imporre il velo – nelle varianti più rigide possibili - per legge.

Va infine ricordato, alle più ingenue voci occidentali entusiaste per questa avanguardia velata e modaiola, che un velo sgargiante che incornicia un volto truccato non è necessariamente sinonimo di apertura mentale e integrazione.

L’egiziana Ayat Orabi, residente a New York, velata e truccatissima nonché sostenitrice dei Fratelli Musulmani, si è recentemente esibita in una diretta Facebook in cui ha invitato a "boicottare i cristiani", poiché la Chiesa egiziana è una "gang" che cerca di instaurare in Egitto "uno stato nello stato" conducendo "una guerra contro l'Islam", tant’è vero che nelle chiese "nascondono le armi". Quindi ha invitato i correligionari "a cercare alternative musulmane ai commercianti cristiani" concludendo  con l’esortazione "Dobbiamo fare loro capire che la mezzaluna deve prevalere sulla croce".

A dimostrazione, appunto, che si può essere allo stesso tempo truccate, hijabiste e fondamentaliste.

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Sherif El Sebaie

Esperto di Diplomazia Culturale, rapporti euro-mediterranei e politiche sociali di integrazione. Nel 2008 viene ufficialmente invitato dal Dipartimento di Stato USA a partecipare all'"International Visitor Leadership Program", un programma di scambi professionali per leader internazionali e nel 2015 è stato scelto dall’Università della Virginia, a seguito di bando, come uno dei 10 Fellow del Simposio Internazionale di Arte Islamica.

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