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Trump e FBI: cosa c'è dietro il licenziamento di Comey

Ci attende un lungo e tumultuoso periodo per la politica americana che vive un clima da "vigilia di guerra civile"

La rimozione del direttore dell’FBI James Comey ha provocato un piccolo terremoto istituzionale a Washington D.C. e rievocato sulle prime pagine dei giornali internazionali il licenziamento deciso da Nixon nell'ottobre del 1973 di Archibald Cox, il procuratore speciale che stava indagando sullo scandalo Watergate, che avrebbe poi compromesso la prosecuzione del suo secondo mandato di presidente.

Comey è stato formalmente fatto fuori per la condotta disdicevole durante la campagna elettorale, quando cioè rivelò particolari del cosiddetto mailgate che - attenzione - non danneggiava Trump ma la sua avversaria democratica Hillary Clinton, al punto da farle dichiarare nel post-elezioni "Ho perso le elezioni per colpa di James Comey, il direttore dell’FBI". Eppure, oggi i detrattori di Trump sostengono il contrario. E cioè che il suo licenziamento sia dovuto in realtà all’intenzione del direttore dell’FBI d’indagare sullo scandalo noto come Russiagate. Un caso politico che sta mettendo in difficoltà lo staff di Trump e il presidente stesso, al punto da far ventilare l’ipotesi di un suo prossimo impeachment, e che ruota intorno a supposti rapporti sconvenienti del suo entourage con il governo di Mosca.

James Comey era stato confermato alla guida del Bureau dal neo-presidente e aveva davanti a sé ancora sei anni alla guida dell’agenzia federale. Poche settimane prima del licenziamento in tronco, però, aveva richiesto fondi proprio per le indagini sul Russiagate - che ha già costretto alle dimissioni alcuni collaboratori stretti di Trump, il Consigliere Flynn su tutti - e da qui i sospetti dei democratici.

james-comey-fbiL'ex direttore dell'FBI, James ComeyWin McNamee/Getty Images

Perché Trump ha licenziato Comey
Ora, la mossa di licenziare il direttore dell’FBI è decisamente ardita, ed è arrivata per giunta a poche ore dall’incontro del presidente USA proprio con il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov.

Richard Nixon viene sempre tirato in ballo come pietra di paragone quando si vuol criticare una presidenza americana: uno dei più iconici e divisivi presidenti degli Stati Uniti che, assediato dagli avversari politici e affetto dalla paranoia in quei tumultuosi anni a cavallo tra il 1968 e il 1974, tracciò una linea di condotta ardita con e contro la comunità d’intelligence.

L’uso spregiudicato dei servizi segreti e delle intercettazioni come sistema di controllo del potere, segnarono infatti la sua presidenza. Travolto dall’arcinoto scandalo Watergate, Nixon si dimise per evitare l’impeachment, la messa in stato d’accusa del presidente. Ma vale la pena ricordare che a soffiare sul caso furono sì i due reporter del Washington Post, Bob Woodward e Carl Bernstein, ma che questi erano stati imbeccati proprio dall’FBI, che era a conoscenza da tempo delle pratiche deplorevoli di Nixon, al punto che la “gola profonda” del caso Watergate si scoprì poi essere lo stesso vicedirettore del Bureau, Mark Felt (che, tuttavia, ha confessato solo nel 2005).

Ma questa storia ha poco a che fare con la presidenza Nixon, se non un punto in particolare: l’FBI si è fatta uno strumento politico, contravvenendo al suo ruolo neutro di organo di tutela delle istituzioni. E ora anche Trump se n’è convinto.

L’11 maggio Kevin McCarthy, leader della maggioranza alla Camera dei Rappresentanti, ha confermato laconico: "Comey ha reso l’FBI un organo politico", chiarendo la linea del presidente e spostando le accuse dallo staff del presidente Trump allo stesso Federal Bureau of Investigation. Ed è proprio questo il punto.

Un attacco politico senza precedenti
Quello che ci troviamo di fronte oggi non è uno scandalo limitato al comportamento “sospetto” di Donald Trump. È un attacco politico senza precedenti, condotto contro un presidente degli Stati Uniti direttamente dall’interno delle istituzioni repubblicane, quelle stesse che dovrebbero essere “neutre” rispetto alla politica, come appunto le agenzie d’intelligence.

Una delle evidenze di questo atteggiamento politicizzato da parte della comunità d’intelligence è la produzione di un report elaborato dalle quattro principali agenzie di intelligence USA – la National Intelligence, la CIA, l’NSA e l’FBI - su mandato del presidente Obama, e fatto trapelare alla stampa l’11 gennaio scorso, ancor prima dell’insediamento di Trump. Quel documento sarebbe voluto essere la “pistola fumante” del Russiagate, poiché all’apparenza conteneva notizie molto compromettenti che confermavano come il neo-presidente fosse ricattato dal Cremlino per i suoi affari in Russia e per le sue perversioni sessuali.

Insinuazioni gravissime che si sono poi dissolte quando è stato dimostrato che si trattava di falso. Uno così grossolano che lo stesso capo della National Intelligence, James Clapper, è stato costretto a diffondere un imbarazzato e confuso comunicato nel quale, dopo aver espresso disappunto perché il dossier era stato fatto pervenire alla stampa, ha ammesso che le accuse contro Trump erano senza fondamento e provenivano da «un’agenzia di sicurezza privata», chiarendo anche che «le agenzie d’intelligence americane non avevano espresso alcun giudizio sull’attendibilità delle accuse». Clapper, tuttavia, non ha mai spiegato perché i servizi segreti avessero comunque ritenuto opportuno «fornire ai vertici della politica un quadro più completo possibile delle materie che possono danneggiare la sicurezza nazionale», sebbene il documento fosse inattendibile.

Il comportamento anti-democratico dei servizi segreti
Questo è solo uno di una serie di altri comportamenti ambigui dei servizi segreti, come l’uso delle intercettazioni che hanno costretto il Consigliere per la Sicurezza Nazionale Michael Flynn a dimettersi dall’incarico: le leggi americane autorizzano sì l’FBI e la CIA a chiedere alla NSA di eseguire intercettazioni in caso di attività antiterrorismo o controspionaggio, ma non certo a intercettare membri designati di un’amministrazione non ancora insediata. Cosa che invece è puntualmente avvenuta nel suo caso. Il che apre a molti dubbi sulla professionalità dei vertici dei servizi americani odierni e getta soprattutto una luce sinistra sulle motivazioni di un simile comportamento.

Quando viene meno il principio di leale collaborazione tra gli apparati d’intelligence e l’esecutivo, e quando sono i servizi segreti a pretendere di dettare la linea politica al governo con espedienti extra istituzionali, gli stessi servizi deviano dal loro compito, minando le basi della democrazia e scivolando verso il golpismo.

Il clima avvelenato che ha contraddistinto le prime ore della transizione alla Casa Bianca, insomma, non è cambiato neanche dopo cento giorni. E le manovre per abbattere la presidenza Trump sono tuttora in corso. Forse perché, dopo otto lunghi anni di Amministrazione Obama, il vecchio establishment (non solo democratico) sembra non voler accettare di essere messo da parte. Così, punta a rovesciare con ogni mezzo il tycoon newyorchese che, contro ogni previsione, ha invece legittimamente conquistato il diritto di essere il 45esimo presidente degli Stati Uniti, vincendo libere e democratiche elezioni.

Quello che dobbiamo aspettarci nei prossimi mesi, perciò, è un lungo e tumultuoso periodo per la politica americana che, come l’ha opportunamente definita l’ambasciatore Sergio Romano, vive oggi un clima da «vigilia di guerra civile». Un clima che autorizza a pensare che “la più grande democrazia del mondo” non sia affatto tale. O, almeno, non lo sia più.

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Luciano Tirinnanzi