Tunisia, Libia e guerra all’Islam radicale
Per affrontare il complesso problema di un eventuale intervento militare, è necessario conoscere a fondo le sfaccettature di quella realtà
Quando Lookout News nel febbraio del 2014 pubblicò un ampio reportage dalla Tunisia, l’intento era quello di documentare la nascita della nuova Costituzione e descrivere il clima di cambiamento che si respirava nel Paese. Quei giorni erano carichi di speranza ed entusiasmo e la gente appariva sinceramente felice e motivata, poiché almeno in questo Paese la “Primavera Araba” (che proprio qui era nata) sembrava aver davvero attecchito.
I parlamentari costituenti, donne e uomini rappresentanti delle diverse anime della società tunisina e alcuni dei quali reduci dalle torture perpetrate dalla lunga dittatura di Ben Ali, erano convinti di aver voltato pagina e di stare scrivendo un nuovo capitolo di storia. E così è stato. Ma non tutti in Tunisia la pensavano e la pensano così.
Il Partito della Liberazione
Negli stessi giorni, intervistammo anche i portavoce di Hizb ut-Tahrir, ovvero il “Partito della Liberazione”. Contrariamente a quanto si possa pensare, Hizb ut-Tahrir non è un vero partito ma un’organizzazione islamista sunnita internazionale, le cui finalità sono la restaurazione del Califfato Islamico e l’imposizione della Sharia. Hizb ut-Tahrir ha ramificazioni in oltre quaranta Paesi e in Tunisia vanta un robusto consenso. La sua affiliazione al salafismo, lo rende un elemento di pericolo e instabilità.
Quello che colpì durante quell’intervista non fu tanto la loro convinzione che i costituenti riuniti nel Parlamento tunisino stessero scrivendo “una Carta laica che non va bene per i tunisini, i quali sono profondamente musulmani all’origine”. Secondo loro, infatti, “ci sono ancora le stesse persone, sistema, leggi e infrastrutture del tempo di Ben Ali, a gestire il Paese. Non vediamo differenze tra la nuova Costituzione e quella del 1959: essa non ha niente a che vedere con l’Islam e la Sharia. Va anzi verso un’altra strada”. Né poteva stupire più di tanto il fatto che intendessero invitare il popolo “a fare una rivoluzione e non soltanto a protestare, ma nel modo concepito dalla religione islamica, con la forza emanata dal popolo”.
Niente confini o sistemi politici alternativi al Califfato
Furono piuttosto due concetti a chiarire bene quale ruolo dovrebbe svolgere l’Islam nelle società arabe, secondo loro. “Non possiamo accettare il compromesso di stare al potere nei sistemi politici attuali. Governare un Paese o partecipare al sistema non è un fatto condivisibile per noi. Noi non siamo al potere perché tutti i regimi sono corrotti”. Una concezione radicale che vede dunque l’Islam alternativo a ogni altra istituzione che non si rifaccia al Corano. Il che pone automaticamente chiunque la veda in questo modo, fuori da ogni possibile modello democratico e istituzionale che non sia quello del Califfato.
La seconda affermazione, tuttavia, fu ancora più inquietante. Alla domanda se secondo loro gli attuali confini statuali in Nord Africa e Medio Oriente andrebbero modificati, risposero in maniera fulminante e inequivocabile: “Non andrebbero modificati, andrebbero cancellati”. Dunque, niente istituzioni politiche intese in senso “occidentale”, nessuna divisione dei poteri alla Montesquieu, niente forme di Stato e di governo che non siano contemplate nel Corano, ma soprattutto nessun riconoscimento delle entità statuali. Niente Tunisia, Libia, Egitto o altro, dunque. L’Islam, per dirla con le loro parole, “non vuole confini” e dev’essere “una sola nazione”. È così che appare la geopolitica ai loro occhi.
Se nel rapportarci ai problemi del Nord Africa e Medio Oriente non comprendiamo a fondo questa loro visione, non potremo mai realizzare perché dallo Yemen alla Tunisia, dalla Siria alla Libia, queste idee attecchiscono e inducono parte delle grandi comunità musulmane ad armarsi e rivolgere queste armi contro il loro stesso popolo e contro di noi, fino alle note conseguenze di cui la strage al Museo del Bardo di Tunisi è solo l’ultimo esempio in ordine cronologico.
Tralasciando il fatto che di armi in questi Paesi ce ne sono fin troppe e che molte di esse provengono da Stati Uniti, Russia ed Europa, è utile tentare di analizzare una delle situazioni più caotiche con le quali ci troviamo a dover fare i conti. Senza però dimenticarci la lezione dei salafiti che ci ricordano come da Mosul a Sirte, da Parigi a Tunisi, tutto sia maledettamente collegato.
Cosa fare in Libia
Il presidente del consiglio italiano, Matteo Renzi, fin dai primi giorni del suo premierato - tra l’altro quasi concomitante con l’entrata in vigore della Costituzione tunisina - individuò subito quale fosse il nostro principale grattacapo in politica estera, la Libia.
Sappiamo tutti dov’era il Paese prima della Rivoluzione che defenestrò il colonnello Gheddafi. Ma oggi sembriamo non sapere più nulla. Eppure, le persone che lo abitano sono sempre le stesse, i pozzi e le condutture pompano il medesimo petrolio e gas con cui scaldiamo case e alimentiamo le automobili da decenni. Solo che al posto di avere un unico governo e un solo interlocutore, adesso ne abbiamo almeno tre. Ciascuno dei quali rivendica a sé tutto il potere.
Tobruk, un governo laico amico dell’Egitto dei generali che pretende di essere legittimo e che tuttavia non controlla il Paese. Tripoli, un governo islamista che oltre alla capitale controlla anche Misurata e i pozzi della regione e le cui milizie si sono dimostrate estremamente agguerrite. Infine, i salafiti di Ansar Al Sharia che, identificandosi con lo Stato Islamico, sognano un prolungamento del Califfato in Libia.
La comunità internazionale oggi riconosce come legittimo il governo di Tobruk. Renzi lo ha confermato a Egitto e Russia e ha lasciato intendere che è da qui che la Libia deve ripartire. La diplomazia sogna un governo di unità nazionale, ma le fratture sono molto probabilmente insanabili, soprattutto per chi - come ci insegna Hizb ut-Tahrir - non ha alcuna intenzione di riconoscere la Libia come uno Stato sovrano.
L’intervento militare
Un governo di unità nazionale sarebbe forse possibile mettendo insieme Tobruk, le tribù berbere e i Touareg, in cambio di maggiore autonomia, redistribuzione della ricchezza e un sistema di tassazione indipendente. In questo modo, un patto potrebbe reggere e forse anche un nuovo corso democratico. Ma non con gli islamisti, che non credono affatto nella democrazia e non hanno intenzione di deporre le armi se non avranno una contropartita adeguata. Con loro, la pace non è possibile. Stesso dicasi per i salafiti, che quantomeno non fanno mistero delle loro reali intenzioni.
La missione Onu di Bernardino Leon, ambasciatore per conto del Palazzo di Vetro, è solo un buco nell’acqua. Prima lo si capirà, meglio sarà per la Libia e per la sicurezza di tutti. Detto ciò, chi ha rotto le uova, deve ora cucinare la frittata. E le uova in Libia le hanno rotte Francia, Regno Unito, Stati Uniti e Italia. La responsabilità dovranno assumersela questi quattro Paesi. Da questo non si esce.
Renzi lo sa bene e il nostro governo oggi lavora per frenare le ambizioni militari europee ma soprattutto quelle del generale Haftar, che controlla parte delle forze armate e scalpita per imporsi con le armi quale nuovo reggente libico. L’Italia vuole così evitare all’esercito libico di ottenere gli stessi insuccessi che l’esercito iracheno sta raccogliendo a Tikrit, roccaforte dello Stato Islamico, convinto di poter battere ISIS senza l’aiuto occidentale.
Lo stallo all’Onu
La Farnesina sta ancora lavorando alla prima fase, che consiste nell’identificare i veri interlocutori, metterli al tavolo e ottenerne l’appoggio, per poi valutare l’opzione militare in una seconda fase. Per adesso, dunque, è ancora tempo di ragionare insieme su come sarà il dopo. Solo quando il mosaico delle alleanze sarà completato, ci si potrà muovere in coerenza e fare la guerra a chi non si allinea.
In ogni caso, da un intervento militare coordinato ed efficace - che deve coinvolgere i quattro eserciti di cui sopra - molto probabilmente non si scappa. Anche perché le milizie non si arrenderanno mai. Difficile credere che basteranno gli sforzi delle sole truppe libiche. Ciò detto, ancora più incerto è il contesto internazionale in cui si voterà un’eventuale risoluzione alle Nazioni Unite.
Se Renzi avrà lavorato bene, Russia, Egitto, Francia, Regno Unito e forse anche Stati Uniti potrebbero infine accettare un impegno militare sotto l’egida dell’Onu, che sia volto a garantire la sicurezza nei pozzi petroliferi, nelle oasi e tendenzialmente nel sud del Paese, mentre il generale Haftar combatterà casa per casa. Ma al Consiglio di Sicurezza dell’ONU qualcosa potrebbe anche andare storto e, ad esempio, un Paese come la Cina - che trae solo benefici nel mantenimento dello status quo in Africa - potrebbe mettersi di traverso. Prossima tappa, Pechino.