Ue: quei leader di destra che non si definiscono di destra
Da Salvini a Le Pen, da Orban ad Alba Dorata: perché i nuovi nazionalisti si nascondono? L'intervista
Per Lookout news
Il ritorno dei nazionalismi e la fuga dalla parola “destra”. È questo che Eva Giovannini descrive nel saggio “Europa anno zero”, un viaggio in sei paesi europei attraverso cui l’inviata di Ballarò è venuta a contatto con i partiti e i leader dei più grandi movimenti nazionalisti del continente. Fotografando una realtà inedita, nel libro edito da Marsilio si fa una scoperta paradossale: la destra oggi vince quando rifiuta questa definizione.
Dalla Francia di Marine Le Pen al Regno Unito di Nigel Farage, dalla marcia di Pegida in Germania all’estrema destra ungherese, dalla Grecia di Alba Dorata fino alla Lega di Matteo Salvini, tutti sembrano rifuggire questo termine, come fosse un elemento negativo e dal quale affrancarsi. «Nessuno dei protagonisti che ho intervistato accetta di essere etichettato nella definizione di destra in opposizione alla sinistra. Tutti dichiarano che “questo è uno schema superato”. Persino Marine Le Pen ha confessato “io non mi sono mai sentita di destra”» racconta Eva Giovannini.
Perché oggi si ha paura a chiamarsi “destra”?
La rimozione di questa parola viene dalla volontà di non perdere alcun tipo di elettorato. Questa società liquida ha fatto sì che l’operaio, il cassintegrato o il precario non si sentano più rappresentati o semplicemente parte di un blocco sociale stabile. Il leader oggi cancella la parola perché non gli conviene usarla. E questo lo dicono tutti, da Marine Le Pen a Viktor Orban, motivo per cui c’è sicuramente un comune denominatore. Sono giunta alla conclusione che una parte dell’elettorato non gradisce votare un partito dichiaratamente di destra, ma è disposta a votarli se non sembrano tali.
Cosa sta succedendo alla destra politica e cosa significa oggi questa parola?
Su alcuni aspetti, destra e sinistra possono effettivamente sembrare concetti superati. Se per un secolo almeno ci siamo trovati di fronte a uno scontro orizzontale, la destra contro la sinistra, oggi la violenta campagna antieuropeista ha spostato l’asse su un piano verticale, dove sopra c’è l’Europa, un “mostro senza testa e senza volto” che impone le proprie regole, e sotto c’è la gente, il “volk” come lo chiama il popolo di Dresda. In questo senso, la dicotomia è diventata l’Europa contro i popoli, e l’elemento comune è la cosiddetta sovranità nazionale perduta e da riconquistare. È qui che, per alcuni aspetti, destra e sinistra s’incontrano e si toccano, e da qui il termine nazionalismo si sostituisce alle altre definizioni. Ciò nonostante, restano movimenti che non possiamo non definire di destra laddove forzano la mano verso un populismo che si fa xenofobo e soprattutto “patrimoniale”, come lo definiscono i politologi.
Che cos’è il populismo patrimoniale?
Un populismo patrimoniale è quello che soffia sulla paura del diverso, dell’altro, del migrante, e cavalca principalmente due timori: quello di perdere il proprio patrimonio fatto di welfare, di pensioni e sanità pubblica, ma anche il proprio patrimonio di valori. In tale visione, l’immigrazione, portatrice di altre culture, diventa pericolosa soprattutto quando è di religione islamica. Ecco perché questi populismi patrimoniali, a mio avviso, restano profondamente di destra: una di stampo populista, xenofoba, nazionalista e non certo una destra gollista.
Forse queste destre appaiono più forti anche perché non c’è una vera sinistra
La crisi della sinistra è evidente. Soprattutto se si pensa a come i partiti socialisti dell’Unione Europea hanno gestito la crisi della Grecia. Penso al vice cancelliere tedesco Gabriel, che appariva ancora più a destra del ministro Schaeuble quando diceva “via la Grecia dall’UE dopo il referendum, meglio che esca se non può rientrare nei parametri”. Quando la sinistra socialista si fa ancora più rigida di una destra di governo moderata come quella della Merkel, significa che qualcosa non funziona. L’asse si è spezzato e allora i movimenti populisti, tanto di sinistra quanto di destra, tornano a volare nei sondaggi.
Qual è il modello di destra vincente oggi in Europa?
Senza dubbio, la destra di Marine Le Pen, che si oppone alla destra neogollista di Sarkozy con un modello che vuole e che potrebbe diventare davvero “mainstream”. Il risultato del Front National, liquidato troppo in fretta come flop alle amministrative solo pochi mesi fa, al primo turno delle presidenziali 2012 aveva preso il 18%, proprio quando Le Pen era stata appena eletta segretario. Lo ricordo bene perché ero a Parigi in quei giorni e la cosa fu vissuta come un successo straordinario. Nel 2014, alle europee si è passati dal 18 al 25%, mentre alle amministrative di primavera il Front National ha raggiunto il 26,3%, risultato storico più alto di sempre. Chiaro che poi bisogna fare sempre i conti con il sistema elettorale, ma in termini assoluti il partito di Le Pen cresce tantissimo. Oggi, per dire, è dato al 31%.
Perché in Francia Marine Le Pen rischia di vincere?
Il suo partito non cresce solo tra le periferie più marginalizzate, ma anche nelle realtà di provincia dove le fabbriche chiudono e l’agricoltura fatica. Si fa strada anche in aree un tempo roccaforti del partito socialista. Marine Le Pen è un esempio da prendere per chi intendesse imitarne il modello. Inoltre, ha ripulito il linguaggio proprio della destra, prendendo dal cassetto anche lessicale del padre una serie di parole e buttandole letteralmente via, impedendo a chiunque di utilizzarle d’ora in avanti. Ha espulso consiglieri comunali anche solo per un tweet fuori luogo e, del resto, ha fatto fuori persino il padre, tale è la sua volontà di arrivare.
Quanta influenza hanno queste tendenze sulla Lega di Salvini e sul M5S?
Matteo Salvini non si considera di destra. Lo dico nel libro. È l’ennesimo leader che mi risponde citando Gaber “cos’è la destra, cos’è la sinistra”. Quando gli ho detto che sono toscana, lui ha citato i numeri trionfali che hanno ottenuto nella regione rossa per eccellenza. E non si può dargli torto. Io vengo di Livorno, storica roccaforte di sinistra, dove però alle ultime amministrative hanno vinto i “populisti” del Movimento 5 Stelle e anche la Lega è avanzata tanto in periferia quanto nel centro storico. Non si può non interrogarsi anche su un simile fenomeno italiano, dove storici feudi di sinistra si consegnano da un lato a movimenti come i 5 Stelle e, dall’altro, a Matteo Salvini. Cos’ha da spartire una città rossa come Livorno con la Lega? È questa oggi la domanda.
Esistono contraddizioni e paradossi in tutto questo?
A me è sembrato paradossale l’incontro con il leader e parlamentare di Alba Dorata. Mentre sopra di lui campeggiava il loro simbolo che ricorda molto da vicino la svastica, Panagiotaros sosteneva tranquillamente: “la destra? Ma quale destra, noi siamo nazionalisti”. Posto che i nazionalismi e le destre si sono intrecciati in maniera inscindibile e drammatica nella storia recente, come si può non definire di destra un partito come Alba Dorata che vorrebbe rimettere le mine antiuomo alle frontiere, che vorrebbe espellere i Rom e ripristinare la pena di morte? Ora, se esiste un argine tra destra e sinistra, un partito che propugna queste tesi non può che definirsi di destra, a mio giudizio.
Quanto la Russia di Putin influenza questi partiti?
È innegabile tanto la forza economica quanto l’egemonia culturale che la Russia di Putin continua ad esercitare su alcuni paesi europei. Per quanto riguarda l’egemonia economica, basti dire che, sia pure sotto forma di un finanziamento di una banca proprietà di un oligarca russo, la Russia ha finanziato il Front National di Marine Le Pen con 9 milioni di euro, un prestito che nessun altra banca europea gli avrebbe concesso. Si pensi poi all’accordo siglato a Budapest la scorsa primavera tra Orban e Putin, un assegno di 10 miliardi di euro staccato dal Cremlino per finanziare l’unico sito nucleare presente in Ungheria. Mentre in piena campagna “Grexit sì o no”, Putin ha firmato con Tsipras un accordo da 2 miliardi di euro per il rinnovo del gasdotto Gazprom. Se in questi casi è direttamente evidente l’aiuto che la Russia di Putin dà a questi paesi, esiste poi anche un’affinità culturale tra queste destre antieuropeiste e Putin.
Su cosa si basa questa affinità?
Da una parte, c’è l’ostilità mai sopita verso l’Occidente e gli Stati Uniti in particolare. Dall’altra, l’ossessione per l’identità, che è fortissima in questi movimenti. E poi c’è l’idea di tradizione e di sovranità nazionale che gli stati forti come la Russia propugnano. L’amore per una politica autoritaria è stata espressa in maniera molto esplicita dal premier ungherese Orban, quando la scorsa estate in un discorso pubblico ha detto: “io non mi rifaccio alle democrazie liberali, preferisco quelle di Russia e Cina, che sono illiberali ma funzionano”. Infine, c’è una certa insofferenza per le minoranze etnico-linguistiche, che in Ungheria si fa particolarmente aggressiva. Tutti questi punti segnano una continuità tra la Russia di Putin e i nuovi nazionalismi europei.